Dal Marocco a Verona, Hajar: “Sarò la prima magistrata con il velo”

“Sarò la prima magistrata con il velo“. Questa la storia di Hajar Boudraa, nata in Marocco 31 anni fa e cresciuta in Italia. A raccontarla è Daouda Sarè, redattrice della testata Black Post, progetto pensato per dare voce ai giovani con background migratorio per raccontare l’Italia plurale. Hajar Boudraa, riferisce la cronista, ha frequentato Giurisprudenza e ora esercita come viceprocuratrice a Verona: “Nel 2019 non aveva ottenuto la borsa di studio perché non era ancora cittadinanza italiana anche sulla carta. Per la giovane donna l’hijab è fede, libertà e coraggio. Nata in Marocco nel 1992, a 5 anni si trasferisce con la famiglia in provincia di Verona e poi, una volta terminate le scuole superiori, sceglie Trento per frequentare la prestigiosa facoltà di Giurisprudenza. Dal 2011 si è, quindi, stabilita definitivamente a Trento dove sogna di diventare magistrata. Al momento è iscritta alla Scuola di specializzazione per le professioni legali (Sspl) a Trento ed esercita come viceprocuratrice onoraria a Verona. Il velo ha avuto diversi significati per la giovane magistrata nel corso degli anni. “Ho deciso di indossarlo quando avevo 13 anni e devo ammettere che nel corso degli anni ha rivestito significati diversi” dice Boudraa. “Oggi per me è fede, libertà, identità e, in un mondo segnato dal conformismo, rappresenta anche un simbolo di forza e coraggio. Peccato che esso ‘spaventi’ a tal punto da rendere più difficile ad una donna velata l’accesso ad alcuni impieghi. È proprio in questo che trovo che non siamo noi donne velate ad avere un limite, bensì quella parte della società che la pensa in tal modo”.
Fonte DIRE

Francesca Frau: l’arte di arredare con il ferro battuto

Giovane artigiana sarda, Francesca Frau ha scelto per passione di mantenere viva la tradizione familiare della lavorazione del ferro battuto, rilevando l’attività di famiglia nei primi anni Duemila. I suoi lavori, che consistono per la maggior parte in complementi d’arredo d’interni ed esterni e sculture in ferro, sono disegnati per poter valorizzare gli ambienti di case, alberghi, negozi e b&b, e realizzati attraverso l’utilizzo di tecniche antiche come la forgiatura, la fiammatura e la cesellatura del metallo. L’alta qualità delle creazioni deriva dalla costante partecipazione alle più importanti manifestazioni di Artigianato Artistico della Sardegna, che nel tempo hanno portato Francesca a collaborare con diversi maestri artigiani di tutta l’isola. “Quella della lavorazione del ferro battuto è sempre stata vista come una professione prettamente maschile. Vent’anni fa risultava molto difficile pensare che una ragazza potesse svolgere questo lavoro, riuscivo a far cambiare opinione solo invitando fisicamente il pubblico a visitare il laboratorio e ad osservarmi mentre ero al lavoro. Oggi, con il web, tutto cambia: gli scetticismi vengono smontati sul nascere perché le immagini fanno il giro del mondo in tempo reale e questo abbatte ogni stereotipo”, racconta Francesca. “Credo che il tocco e il gusto femminile possano dare un valore aggiunto a quest’arte, come a tante altre, e cerco di diffondere questo messaggio attraverso la comunicazione sui miei canali social, dove ricevo molti incoraggiamenti sia da donne, che da uomini”.

Daniela Diletti: innovazione e artigianalità oltre gli stereotipi

Rinnovare il settore delle calzature e allontanarlo dai luoghi comuni: è questa la mission di Daniela Dilettiimprenditrice marchigiana che, nel 2012, ha fondato un’azienda nel ramo calzaturiero, dando nuova vita alla tradizione familiare.

Dal primo negozio a Torino ai temporary store in Italia e all’estero, fino all’e-commercequella che porta avanti Daniela è una rivoluzione sia digitale che culturale, mirata ad abbattere la distanza tra produttori e cliente finale e a superare gli stereotipi legati alla figura femminile. “Quello del design e della produzione di scarpe è un ambiente prettamente maschile. Le scarpe vengono realizzate soprattutto secondo parametri estetici maschili che vedono i piedi delle donne idealizzati e conformistici: da sempre si immagina la figura femminile con piedi minuti e scarpe piccole. Viene, dunque, considerato normale che l’indossare delle calzature, soprattutto per una donna, debba rivelarsi un po’ doloroso, non dando ascolto alle esigenze personali: da cui deriva che i problemi di deformazione del piede nutrono anche una forte derivazione culturale”.

Per portare avanti questa battaglia, Daniela ha da subito posto al centro del suo business il dialogo con le donne e l’attenzione alle loro necessità. “Ho sempre cercato di comprendere da vicino le problematiche femminili e di comunicare attivamente per risolverle. Ecco perché, prima di vendere un paio di scarpe ad una cliente, non domando mai la taglia che indossa, ma la misura del suo piede, oltre ad eventuali problemi o patologie. Utilizzo strumenti digitali e di messaggistica per coinvolgere le mie clienti all’interno del processo produttivo e per fornire un’assistenza dettagliata durante tutte le fasi dell’acquisto, arrivando a conoscere attentamente chi c’è dall’altra parte della chat”.

Una sfida, quella di Daniela, che unisce il desiderio di riportare in auge a livello nazionale l’interesse per i mestieri antichirendendoli attuali attraverso il digitale, e di superare gli stereotipi di genere. “Il business è da sempre considerato materia maschile e credo che i pregiudizi nei confronti delle donne che si occupano o fanno impresa esistano ancora: tuttavia, non li ritengo ostacolanti”, continua. “È fondamentale per una donna riuscire a superare questa prima barriera di diffidenza e non smettere di credere nel proprio progetto”. Un consiglio per iniziare? Sfruttare gli strumenti digitali attuali – dai social al POS mobile come quello di SumUp – per avviare il proprio business ed accettare ogni forma di pagamento in modo semplice e veloce.

Marcella Menozzi: dalla passione per la musica all’arredamento su misura

Imprenditrice emiliana, Marcella Menozzi si è avvicinata nel 2016 al mondo delle creazioni in legno, mentre svolgeva ancora la professione di musicista e videomaker. Un amore a prima vista che ha spinto Marcella a frequentare numerosi corsi per affinare sempre di più la sua tecnica, fino a bussare alle porte delle botteghe per diventare falegnama. Nel 2019, Marcella ha aperto, a Bologna, la sua attività ed un e-commerce –  MenoDesign – progettando e realizzando oggi mobili su misura, oggetti in legno, lampade utilizzando materiale di recupero e arredi creativi, mantenendo quella vena artistica che da sempre costituisce un tratto distintivo della sua personalità. Il nome MenoDesign nasce sia dalla voglia di valorizzare il significato puro della parola design: ideazione e progettazione, sia con l’intenzione di semplificare, sottrarre fino a raggiungere l’essenza del prodotto da realizzare. La passione per il legno nasce nel 2016 dopo un corso di stop-motion che le ha permesso di lavorare con le mani e costruire. Scalpelli, seghe e pialle sono così diventati i suoi strumenti di lavoro. “Amo il mio lavoro e nonostante sia generalmente percepito come una professione maschile, non mi sono mai sentita sminuita o sottovalutata”, racconta Marcella. “Ho la fortuna di avere un bellissimo rapporto sia con i miei clienti, che sono per la maggior parte donne, che con i miei collaboratori. Sono stati proprio questi ultimi ad insegnarmi come lavorare al meglio: anche quando ci sono da spostare oggetti pesanti, non è sempre una questione di forza, e con la tecnica giusta è possibile sollevare pesi anche per chi non ha una costituzione particolarmente robusta. Se sono in difficoltà? Chiedo aiuto,  senza sentirmi in difetto o inferiore”.


Cosa realizzo

Progetto e realizzo mobili su misura, oggetti in legno, lampade con materiale di recupero e arredi creativi in genere.
Non mi pongo limiti, né di dimensione, né di funzionalità: mi piace partire da una necessità o da un desiderio, fare ricerca per trovare proposte e soluzioni originali.
Sono disponibile a realizzare progetti su commissione, partendo da nuove invenzioni o la messa in pratica di un’idea esistente.

Le donne del Teatro Comunale di Modena

“Il teatro non è cosa per donne” è una frase celebre dell’attore e regista Carmelo Bene. Forse si riferiva alla fatica, alla durezza, del lavoro teatrale e dunque alludeva che le donne erano troppo deboli per affrontarlo.  Eppure le professioniste che lavorano a teatro, in particolare dietro le quinte, sono tante. Fanno parte di un mondo nascosto al pubblico eppure pulsante di abilità, esperienza e capacità: un mondo nel quale la tecnica si unisce a gesti che affondano la loro origine in tempi lontani. È il mondo dei macchinisti, degli attrezzisti, degli scenografi, dei sarti. Nulla senza di loro potrebbe esistere di quella “materia dei sogni” di cui il teatro è fatto. È artigianato in senso stretto, un’attività nella quale ogni prodotto è diverso dall’altro, e in ognuno c’è l’impronta della mano di chi lo ha fabbricato così come i pochi strumenti, spesso realizzati in proprio. Al Teatro Comunale Pavarotti, principale teatro lirico di Modena, due figure chiave nella messa in scena degli spettacoli sono donne: Keiko Shiraishi, una delle poche scenografe sulla scena teatrale nazionale odierna e Catia Barbaresi capo macchinista teatrale, unica donna in Italia a ricoprire questo ruolo in un ente teatrale stabile e una delle pochissime macchiniste in Italia.

KEIKO SHIRAISHI

E’ giapponese l’erede di cinque secoli di tradizione pittorica teatrale emiliana che arriva ai nostri giorni con i pittori modenesi Koki Fregni, Maria Grazia Cervetti e Rinaldo Rinaldi. Keiko Shiraishi è capo scenografa del Teatro Comunale, uno dei pochi teatri rimasti in Italia nella costruzione di allestimenti scenici. Significa che la maggior parte delle opere sono affidate ad artigiani con l’allestimento all’italiana di fondali e quinte dipinte a mano. Una tradizione che viene esportata in tutto il mondo, soprattutto nel caso degli scenografi esecutori. Gli italiani sono gli unici che ancora dipingono a mano, e a livello di eccellenza.

Keiko, parlaci dei tuoi inizi

Sono nata nel 1970 a Shizuoka, in Giappone.  Risale agli anni ’80 la mia prima esperienza come illuminotecnico e scenografa per la compagnia teatrale del Liceo regionale Kariyakita. All’età di 18 anni ho lasciato gli studi superiori per seguire mio padre in India, ingegnere della Toyota e responsabile dello stabilimento di Nuova Delhi. Lì mi sono dedicata agli studi universitari, ho studiato Musica Classica Indiana al Conservatorio e lingua italiana presso l’Ambasciata Italiana di Nuova Dehli. Nel 1993 sono arrivata a Roma per studiare all’Accademia di Belle Arti. Ho collaborato come apprendista al Teatro dell’Opera di Roma e come scenografa realizzatrice al Teatro di Roma. Ricordo di essermi presentata tutti i giorni per sei mesi per convincere il direttore del Teatro dell’Opera a farmi fare lo stage.  Grazie a Edoardo Sanchi sono diventata assistente di Rinaldo Rinaldi, tra i più importanti scenografi al mondo.

Come sei arrivata a Modena?    

Nel 1997 ho seguito Rinaldi a Modena e insieme abbiamo collaborato alla realizzazione pittorica di importanti opere commissionate dai più prestigiosi teatri lirici nel mondo. L’anno dopo sono entrata al Comunale prima come stagista e poi da scenografa. Non potendo essere assunta, in quanto straniera ed extracomunitaria, ho aperto la partita Iva e dal 2011 ho lavorato come scenografa libero professionista per diversi teatri e in modo continuativo, dal 2017, con il Teatro Comunale. Come libera professionista, ho firmato e realizzato scene di spettacoli teatrali per la Compagnia del Serraglio, Giardini Pensili, Teatro dei Cinquequattrini.

Come si costruisce una scenografia e quante ne hai realizzate?  

Sono scenografa specializzata nella costruzione di fondali dipinti a mano. E’ un mestiere puramente artigianale che sta ormai scomparendo. Il fondale è l’elemento scenografico più importante e si trova nello sfondo del palcoscenico. Nella mia carriera ho realizzato quaranta, tra scenografie e fondali dipinti a mano. Usiamo pennelli, tavolozze e colori, si lavora in piedi con le tele a terra. Occorrono tre mesi per realizzare una scenografia di ampie dimensioni mentre se la scena è piccola lo realizzo da sola e in un mese. E’ un’arte antica e difficile perché come realizzatore devo interpretare le intenzioni del bozzettista e prevedere l’effetto finale. Il lavoro finito è tutto finto, una illusione per il pubblico ma la tecnica per realizzare questi scenari è in realtà un’arte meravigliosa, quella praticata dai pittori di fondali che, appunto, dipingevano le ambientazioni che avrebbero fatto da sfondo alle storie.  

Progetti per il futuro?

Mi piacerebbe portare avanti la tradizione di questo antico mestiere, ormai in estinzione, proprio qui a Modena.  Oggi solo quattro pittori, in tutta Italia, dipingono i fondali, due lavorano sotto la Ghirlandina. Pochi sono i laboratori di scenografia mentre i fornitori sono quasi scomparsi. Gran parte del materiale viene autoprodotto: dai carboncini ai pennelli fino ai colori di scenografia. La città di Modena, essendo patria di artigiani importanti  nel mondo del teatro, come Rinaldo Rinaldi, uno degli ultimi pittori rimasti a dipingere fondali nella sala di scenografia di un teatro d’opera italiano, potrebbe pensare di investire in una scuola di scenografia rivolta alle nuove generazioni perché questo lavoro si impara solo facendolo.   

CATIA BARBARESI

E’ diplomata all’istituto d’Arte e specializzata in Architettura e Arredamento. Ma quando, nel 1997, Catia Barbaresi, originaria di Fano, ha messo piede per la prima volta nel Teatro di Fano, ha capito che il palcoscenico sarebbe stato il suo “luogo di lavoro”. Da più di vent’anni lavora come capo macchinista per il Teatro Comunale di Modena. Il suo compito è quello di montare le scenografie e farle muovere sulla scena durante lo spettacolo. Una magia, appunto, che si nutre di tecnica e sapienza del mestiere.

Qual è stato il tuo approccio al teatro?

Nel 1997, all’età di 20 anni, ho vinto un concorso al Teatro di Fano, la mia città di origine, ed ho iniziato subito a lavorare come macchinista. Sono entrata in questo mondo fantastico e per me è stato amore profondo grazie anche ad una sensibilità musicale trasmessa da mia nonna. Quello del macchinista è un lavoro complesso: bisogna mostrarsi determinati, soprattutto in un contesto lavorativo prevalentemente maschile. Io stessa sono stata formata da un uomo, il grande Maestro Angelo Lontani di Piacenza che ha contribuito a farmi amare questo mestiere. Probabilmente, poi, c’è una predisposizione familiare a fare lavori maschili. Mia mamma aveva un lavaggio d’auto e mia zia era un capo operaio in un cantiere navale. Lavoro stabilmente, dal 1998, al Teatro Comunale di Modena ma mantengo ancora collaborazioni esterne, tra queste quella importante con il Festival dei Due Mondi a Spoleto.

Cosa ti appassiona del teatro?

Il mondo del teatro è molto bello perché solo quando sei dentro capisci cos’è: è come aprire una porta spazio tempo dove le opere teatrali hanno il dono dell’immortalità.  E poi, il lavoro dei tecnici dietro le quinte: abili artigiani, pronti a trasformare in realtà le fantasie geniali dei registi. Vedere la mano che realizza è il momento più affascinante. Mi muovo nel ventre del teatro, in un mondo che gli spettatori non vedono. Ma grazie al lavoro dei tecnici, di chi sta dietro le quinte, lo spettacolo esiste. 

In cosa consiste il lavoro del macchinista?

I macchinisti si occupano della costruzione, montaggio e movimentazione delle scene, prima e dopo lo spettacolo e del loro funzionamento durante la rappresentazione. Quella del macchinista è un’arte molto antica e non è cambiata nel tempo: il mio lavoro consiste nella gestione della parte tecnica: legare corde, realizzare contrappesi per sollevare oggetti pesanti, costruire e manovrare i marchingegni del palcoscenico. A Modena lavoriamo in un team affiatato dove è importante trovare una sintesi tra le diverse esigenze, dal regista, allo scenografo al tecnico della luce. La mia figura fa da raccordo tra il lavoro tecnico e quello artistico. Come capo macchinista ho l’ultima parola sulle decisioni da prendere nella preparazione delle strutture portanti alle quali sono in seguito appese le luci e le scene, preparando e movimentando i tiri. E’ un lavoro molto affascinante ma di grandi responsabilità dove il lavoro di uno dipende il lavoro degli altri e dunque, ogni ingranaggio è ugualmente importante e deve funzionare con precisione, affinché il risultato finale sia un successo.  

Cosa consigli ad un giovane che vuole seguire le tue orme?

Avvicinarsi ai teatri non è difficile ma non è neanche così immediato. Il lavoro del teatro è molto duro, e la memoria dell’esperienza difficile da trasmettere. Per questo occorre salvaguardare il lavoro del teatro come mestiere d’arte, perché altri possano apprendere e tramandare alle generazioni successive. Il percorso che avvicina di più al mestiere è l’Accademia di Belle Arti cui deve seguire la crescita professionale mediante l’esperienza sul campo affiancando i maestri nell’apprendimento dei segreti e trucchi del mestiere.

Storia di una mamma artista che trasforma gli scarabocchi della figlia in opere d’arte

Nel 2015, il lavoro dell’artista canadese Ruth Oosterman è diventato virale dopo che lei e sua figlia Eve, che all’epoca aveva solo 2 anni, hanno condiviso sui social media i loro dipinti collaborativi in ​​cui Ruth ha trasformato gli scarabocchi di sua figlia in bellissime opere d’arte. Ruth, che vive a Toronto, si lascia ispirare dalla sua bambina che ha il privilegio e la capacità di dare il “la” alle opere della sua mamma. Un bel progetto di famiglia, in cui è stato coinvolto anche il fratello minore Theodore, sfociato nell’esperimento “Collaborazioni con il mio bambino”. Dopo che la serie ha ottenuto l’attenzione internazionale, Ruth ha deciso di utilizzare le loro collaborazioni come piattaforma per ispirare gli altri, aiutarli a perseguire le loro passioni nella vita, e a condividere i loro talenti e il loro tempo con i più giovani. Il genio artistico è un dono e per creare delle opere d’arte bisogna possederlo come qualcosa di innato. Gli artisti hanno una grande immaginazione e si lasciano ispirare dalle cose più impensabili. Eve prende il suo pennarello, si posiziona davanti a un foglio bianco e inizia a tracciare delle linee che piano piano s’intrecciano e diventano forme inestricabili per una mente artisticamente inesperta. Poi arriva Ruth, mette in moto la sua immaginazione e con il suo genio artistico trasforma quelle linee in bellissimi disegni, delle vere opere d’arte.

«Sempre più in alto!»

Alessia Fontanari 28 anni, cofondatrice di Mapo Tapo, che organizza viaggi d’arrampicata sostenibili

Nasce dalla passione per la montagna e le arrampicate l’avventura di Alessia Montanari, cofondatrice di Mapo Tapo, agenzia che si propone di sviluppare il turismo sportivo estremo come mezzo per portare una crescita economica sostenibile alle comunità promuovendo il turismo responsabile, il rispetto per l’ambiente. «Con Mapo Tapo abbiamo iniziato a organizzare viaggi l’anno scorso – spiega Alessia Montanari – . Abbiamo fatto partire una quarantina di free climber internazionali, poi siamo stati costretti a chiudere. Era il periodo peggiore, ma non ci siamo persi d’animo. In autunno siamo riusciti a entrare a B4I, Bocconi for Innovation, l’acceleratore di start up dell’università, dove siamo rimasti fino a un mesetto fa. Una bellissima esperienza; non solo abbiamo avuto il sostegno finanziario, ma soprattutto ci hanno aiutato a strutturarci, e a creare una community con le altre start up. A breve apriremo le prenotazioni per viaggi nell’entroterra siciliano, nel sud della Sardegna, nella Repubblica Ceca e in Grecia. Trattiamo senza intermediari con B&B sul posto. Pensiamo che il turismo sportivo outdoor, a contatto con la natura, possa portare valore sostenibile in aree che non hanno tante opportunità per crescere. Speriamo a breve di poter offrire mete più lontane, come il Malawi, e di allargarci allo sci alpinismo e al surf, sempre in chiave internazionale. Puntiamo sempre più in alto! Intanto, grazie a una campagna di crowdfunding, abbiamo pubblicato e Climbing Travel Guide, con le 50 più belle destinazioni fuori dai sentieri battuti».

La storia di Anna Castelli. Riprendersi dopo un licenziamento

Tra gli esempi di startup di successo troviamo la storia di Anna Castelli, che è stata manager per circa 20 anni, presso una multinazionale canadese.

Un bel lavoro di cui era soddisfatta. Ben pagata, conduceva una vita agiata e faceva molti viaggi. Un giorno però è accaduto che la sua azienda è stata venduta a un’altra multinazionale e la nuova azienda ha assunto altre persone. In un batter d’occhio si è ritrovata licenziata.

Ha attraversato un periodo molto difficile che è durato un anno. Poi ha avuto un’illuminazione, un’idea che le ha fatto balenare in testa il pensiero di aprire una sua startup e con una amica d’infanzia ha dato vita a Make space for life. La sua è una startup al femminile con sede a Montréal, Québec, che aiuta le persone che devono affrontare un trasloco. Tuttavia non si limita solo a impacchettare e trasportare il tutto, si occupa anche della sistemazione dei mobili nella nuova casa e di fare persino piccoli lavori di ripristino. Così, i nuovi abitanti, si ritroveranno sin da subito in una casa pronta, accogliente e abitabile.

Durante il Covid il governo canadese è subito intervenuto con un bonus da 2000 euro mensili, previsti fino alla fine della crisi.

Come è nata l’idea di aprire questa attività? “Per cominciare, eravamo sempre richiesti ogni volta che i nostri amici e la nostra famiglia si trasferivano, rinnovavano o si riorganizzavano. Sapevano che la nostra passione era aiutare le persone, prima di tutto. Con il progredire delle nostre carriere professionali nel corso degli anni, abbiamo sviluppato una vasta esperienza in aree come il servizio clienti e la gestione dei progetti, insieme a forti capacità organizzative e attenzione ai dettagli. Una volta deciso di creare Make Space for Life , abbiamo studiato tutti gli aspetti dell’organizzazione personale e siamo stati certificati come Advanced International Organizing Professionals (AIOP). Siamo inoltre completamente assicurati e registrati come membri degli organizzatori professionali in Canada (POC)“. Oggi i nostri clienti hanno presto riconosciuto le nostre capacità professionali, ma anche l’aspetto umano del nostro approccio. Pratichiamo grande cura, empatia e una mente aperta con tutti i nostri clienti, riconoscendo che fare una transizione e far entrare le persone nel tuo spazio personale può essere un’esperienza molto emozionante. Ci piace sinceramente lavorare con le persone e contribuire alla gratificazione che le soluzioni organizzative personalizzate portano alla vita dei nostri clienti.

I londinesi Oliver e Alexander Kent-Braham, 29 anni, potrebbero trasformare il modo in cui si acquista l’assicurazione

Oliver e Alexander Kent-Braham

Che cosa fa Marshmallow

LONDRA – Le start-up da miliardi di dollari non sono certo una rarità: la società di dati CB Insights elenca più di 800 aziende tecnologiche private in tutto il mondo valutate oltre il miliardo di dollari o più. Ma Marshmallow, una piattaforma assicurativa digitale con sede a Londra, è davvero rara. Fondata nel 2017 dai gemelli misti Oliver e Alexander Kent-Braham, è la seconda azienda di proprietà di cittadini di pelle nera in Gran Bretagna e ha debuttato nel mercato assicurativo offrendo una copertura per le auto degli stranieri immigrati nel Regno Unito. Recentemente i due fondatori hanno ottenuto finanziamenti per la loro compagnia di assicurazioni digitale ottenendo una valutazione di $ 1,25 miliardi (£ 910 milioni) e lo status di “Unicorno”, il termine usato nella Silicon Valley per indicare le start-up che valgono più di $ 1 miliardo, come Uber e Airbnb. L’azienda Marshmallow si propone come il secondo unicorno del Regno Unito ad essere fondato da persone di origine nera. Ciò fa seguito a una serie di studi e ricerche nell’ambito della raccolta fondi nella tecnologia europea e che evidenziano come i neri costituiscono solo il 3% di forza lavoro impiegati nell’industria europea. Un altro rapporto afferma, invece, che meno dell’1% del capitale del Regno Unito è stato indirizzato ai fondatori di aziende di proprietà di neri negli ultimi 10 anni. “Le statistiche sulla mancanza di diversità nelle industrie di venture capital e startup sono “scarse”, dice Oliver “Solo una piccola parte di capitale va verso i fondatori neri.”

Gli affari vanno a gonfie vele

Dalla sua fondazione la prima compagnia di assicurazioni per auto digitali si è inizialmente proposta per servire gli espatriati, che hanno faticato a trovare un’assicurazione conveniente presso i fornitori storici. Lo scaleup ora si descrive come “mercato di massa” ed è una delle uniche due insurtech britanniche a cui è stata concessa una licenza dalla FCA, il che significa che può vendere l’assicurazione direttamente ai clienti. Ma più in generale, fa parte di un gruppo emergente di startup tecnologiche che affrontano un settore assicurativo radicato su cui gli investitori hanno scommesso. Per un settore che vale 6 trilioni di dollari a livello globale e, fino a poco tempo fa, non ha visto la stessa quantità di innovazione tecnologica della finanza o della salute, non è difficile capire perché i VC ora siano desiderosi di investire nel settore digitale. “Siamo rimasti molto sorpresi dalla continua mancanza di diversità nel settore tecnologico – ha detto in un’intervista alla CNBC Oliver Kent-Braham, CEO di Marshmallow – . Secondo Extend Ventures, nel Regno Unito, secondo Extend Ventures, solo l’1,6% del finanziamento del capitale di rischio è andato a team fondatori completamente etnici, mentre solo lo 0,2% è andato a imprenditori neri. Kent-Braham pensa che la colpa sia della mentalità del capitale di rischio. Molti investitori tecnologici ignorano le e-mail fredde e supportano solo i fondatori che conoscono attraverso i colleghi, ha affermato. Con oltre 100.000 clienti ora registrati, Marshmallow prevede di lanciare altri prodotti e di espandersi in tutta Europa. Il mercato della tecnologia assicurativa, o insurtech, ha visto un’impennata degli investimenti quest’anno dopo che la pandemia di Covid-19 ha accelerato uno spostamento del comportamento dei consumatori verso i servizi online.


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Lungo il filo della storia. Da otto generazioni, l’arte della tessitura in chiave contemporanea

L’arte del tessere è antica quasi quanto l’uomo. Tutte le civiltà, nei periodi storici, hanno lasciato testimonianza delle proprie conoscenze nel campo della produzione di manufatti tessili, in gran parte tramandate per via orale e, prima dell’avvento della produzione su scala industriale, mantenute e custodite nell’ambito delle famiglie di artigiani tessitori, riuniti eventualmente in corporazioni.
La ditta Artelèr è nata negli anni ’80 proprio dalla volontà di Lucia Trotter e della madre Lina Zanon di recuperare e ripristinare il mestiere della tessitura manuale, principale attività lavorativa della famiglia materna fino ai primi decenni del ‘900. Ricostruendo ed utilizzando i telai secondo tecniche secolari, la ditta Artelèr produce tessuti originali per disegno e caratteristiche tecniche di fabbricazione, discendenti da una antica tradizione di area europea. Il laboratorio artigiano si trova a Mezzano, un borgo gioiello nella Valle di Cismòn, dove, attorno ad antiche stradine e case sapientemente restaurate, si tramandano i mestieri di un tempo dimostrando come sia possibile coniugare la tradizione con il futuro e l’innovazione. Lucia Trotter porta avanti la tradizione tessile di ben otto generazioni assieme alla figlia stilista Carmen ed alla cognata Teresita (detta Zita).

Come nasce questa tradizione? Come tante altre storie di migrazione, comincia con una storia di riscatto, di speranza e di sogni alla ricerca di un futuro migliore. Tutto parte dalla vicenda di Primiazzo Zanon, tessèr della Val di Fiemme. Smonta il suo telaio, lo carica su un carretto, e s’incammina tra fitti boschi per valicare il versante dei monti diretto verso la Valle di Cismòn, terra non troppo lontana. Qui, precisamente a Mezzano, pittoresco borgo a 90 chilometri da Trento con poco più di 1600 abitanti, mette su casa, bottega e famiglia e dà avvio a una stirpe di tessitori che, ancora oggi, è identificata dal suo nome troncato “Miazzo”. Di generazione in generazione, i Zanon continuano esclusivamente a tessere e si tramandano il mestiere fino a metà Ottocento diventando artigiani e imprenditori e incentivando l’economia del proprio paese e trasmettendo i primi rudimenti dell’arte a qualche giovane richiamato da un proclama che invita possibili garzoni. 

Lucia, fin da quando ha ricevuto il “testimone” dalla mamma Lina, ha continuato ad unire la curiosità della sperimentatrice con la sicura competenza che le viene dalla tradizione.
Nel laboratorio sono ancora in uso gli antichi telai di famiglia con cui vengono tra l’altro realizzati i pregiati damaschi double-face con disegni che risalgono all’impero austroungarico. Accanto a copriletto, coperte, tovaglie, tappeti e tendaggi,  adagiati sul tipico secchiaio di marmo di quella che un tempo era la cucina – sono in bella mostra anche i vestiti ideati dalla figlia stilista Carmen capi unici, moderni, scanzonati e vagamente etnici. Qui si lavora su ordinazione perché ogni pezzo è tipico, unico e di grandissima qualità.