Maria Beatrice d’Este. Una modenese sul trono d’Inghilterra

Raccontiamo la vita di Maria Beatrice d’Este, l’unica modenese, e italiana ad essere salita sul trono d’Inghilterra e passata alla storia come Mary of Modena. La storia di un lungo viaggio che ha portato una adolescente di 15 anni ad abbandonare la sua amata Modena e il suo sogno di entrare in convento, per ricoprire un ruolo importante fino a diventare l’ultima Regina cattolica del Regno d’Inghilterra, in forza del matrimoni con Giacomo Stuart II, anche se per soli quattro anni.

(c) English Heritage, Kenwood; Supplied by The Public Catalogue Foundation

Maria Beatrice D’Este nacque il 5 ottobre 1658 nel Palazzo Ducale di Modena, residenza dei suoi genitori, Laura Martinozzi e Alfonso IV d’Este. Nacque nove giorni prima della morte del nonno, il Duca Francesco I d’Este, ammalato di malaria durante la guerra e morto a Santhià il 14 ottobre di quell’anno. La nascita di Maria fu quindi passata quasi inosservata perché coincise non solo con la morte del grande duca modenese ma anche con l’ascesa del padre Alfonso IV come governatore di Modena. Due anni dopo la madre Laura mise al mondo un rampollo, il fratello Francesco con grande giubilo generale. Maria e Francesco ricevettero una severa educazione religiosa e morale. In particolare la principessa fu educata dal padre gesuita Garimberti e da donna Matilde Bentivoglio che fondò a Modena il monastero delle Carmelitane Scalze; la giovane imparò a parlare e scrivere in italiano, francese e latino. Con la morte del padre Alfonso, avvenuta nel 1662 a causa della gotta e della tubercolosi la vita di Maria cambiò: la madre Laura, poiché il fratello Francesco era troppo piccolo, divenne reggente del ducato di Modena.  Profondamente religiosa e riflessiva, Maria non amava la vita di corte tant’è che all’età di 9 anni,  concepì l’idea di diventare suora, decisione maturata durante la frequentazione con le monache della Visitazione, dette visitandine, nel convento eretto nei giardini del Palazzo Ducale.

Questo era l’obiettivo di vita di Maria. Ma poi accadde qualcosa che cambiò irreversibilmente i suoi piani. 

Nel 1670, quando Maria  non aveva ancora dodici anni, si pensava a lei per un buon matrimonio. Come si usava a quei tempi, le bambine di case illustri venivano fin dall’infanzia destinate a questo o quel nobile soprattutto per ragioni politiche. Anche per i principi, all’epoca, il matrimonio era politicamente importante. Proprio in quel periodo la corte inglese cercava moglie per il Duca di York, fratello di Carlo II Re d’Inghilterra, quest’ultimo senza figli, per assicurare la discendenza al trono.  Giacomo era vedovo con due figlie legittime, Mary e Anne. Cattolico dichiarato, aveva venticinque anni più della sua sposa, sfregiato dal vaiolo e affetto da balbuzie. Fu così fatta una lista di fanciulle di famiglie regnanti in tutta Europa. Il Duca fu attratto dalla quattordicenne Maria Beatrice dopo averne veduto il ritratto. Nelle corti europee Maria godeva fama di essere bella, buona, colta, onesta e molto religiosa, quindi la donna ideale per il futuro re, convertitosi da poco al cattolicesimo. Le trattative matrimoniali, gestite a Modena dal Conte di Petersborough, ambasciatore del Re d’Inghilterra e ospite del Conte Ugo Molza, furono però condotte con molta difficoltà. La quattordicenne Maria, infatti, oppose una ferma resistenza al matrimonio imposto. Con le monache della Visitazione, piangendo, si confidava:” Perché non sono nata in una povera capanna, contadina, avrei potuto scegliere il mio stato!”.  la salutò calorosamente a Parigi, dove Maria fece tappa, donandole una spilla del valore di £ 8.000.

Più fredda fu invece l’accoglienza del popolo inglese. Il Parlamento, composto da protestanti, reagì con sospetto alla notizia di un matrimonio cattolico, temendo che si trattasse di un complotto “papista” contro il Paese e minacciò di annullare il matrimonio.  Il primo incontro tra Giacomo e Maria avvenne a Dover il primo dicembre 1673 per poi proseguire a Londra. Dopo inizi non certo facili, la giovane si adattò agli usi e costumi della corte inglese e al suo ruolo di principessa consorte sostenendo in tutto Giacomo, che divenne ben presto per lei un importante punto di riferimento. Maria cercò di stringere amicizia con le due figliastre, Maria (che diventerà Maria II d’Inghilterra) e Anna, ma nonostante gli sforzi fu sempre considerata a corte come “la figlia del papa”. Rimase comunque apprezzata e riconosciuta le sue qualità morali e intellettuali e il suo mecenatismo: si circondò di artisti, filosofi, poeti e musicisti, famoso fu il suo salotto letterario.

Maria, dal 1674 al 1692 ebbe numerose  gravidanze portate a termine sebbene funestate dalla morte precoce dei bambini. Molti, soprattutto a Modena, nutrivano dubbi sulle morti improvvise dei piccoli Stuart, tra questi anche Francesco, il fratello di Maria e la madre Laura. Tuttavia le autopsie ufficiali non diedero alcun esito. Rimane il fatto che, dei sette figli di Maria nati vivi, sopravvissero all’infanzia solo quelli cresciuti in esilio.Il 16 febbraio 1685, re Carlo II morì improvvisamente e il fratello Giacomo nominato suo successore. L’incoronazione avvenne il 23 aprile 1685 nell’abbazia di Westminster, con gran sfarzo e Maria divenne Regina consorte del Regno d’Inghilterra, Scozia e Irlanda.

Dopo aver soggiornato a Bath, famose terme inglesi nella speranza che le sue acque miracolose aiutassero il concepimento, Maria Beatrice riuscì a rimanere incinta alla fine del 1687. Mentre i cattolici si rallegrarono, i protestanti, che fino a quel momento avevano tollerato il governo cattolico di Giacomo perché non aveva eredi cattolici, erano preoccupati. Forte fu quindi la delusione quando, nel 1688, nacque il sospirato erede Giacomo III. Un figlio maschio, forte e sano. A quel punto la prospettiva di un Paese protestante governato da una dinastia cattolica scatenò un’aperta rivolta. La nascita del principino fu subito calunniata come un imbroglio. L’opinione popolare considerava il bambino un falso erede, anziché figlio legittimo,  figlio di una presunta Mrs Gray poi barbaramente trucidata per mantenere il segreto e introdotto clandestinamente nella camera del parto della Regina, in sostituzione del figlio vero ma morto e spacciato per autentico pur di garantire la successione.  Questa voce fu ampiamente accettata come un fatto dai protestanti, nonostante i numerosi testimoni della nascita  e sebbene la successiva indagine del Privy Council abbia affermato che la notizia era certamente falsa. Fu l’inizio della Gloriosa Rivoluzione, o della Rivoluzione senza sangue, che privò Giacomo III del suo diritto al trono inglese , perché non era ritenuto il vero figlio del re e, in seguito, perché era cattolico.  Il re Giacomo II fu abbandonato da tutti e cacciato, il trono fu dichiarato vacante e salì al trono sua figlia primogenita Maria II, che era protestante, con il marito Guglielmo d’Orange. Giacomo Stuart e Maria Beatrice dovettero fuggire in Francia, in esilio nel castello di Saint Germain – en – Laye e sotto la protezione del Re Sole che sostenne la causa giacobita. Da qui cercarono in ogni modo di rientrare in Inghilterra e di far riconoscere il figlio quale unico legittimo erede al trono inglese.  Alla morte di Giacomo II, avvenuta nel 1701, Maria Beatrice, chiamata dai giacobiti “La Regina dell’acqua”, assunse la reggenza in nome del figlio tredicenne. Durante la vedovanza Mary trascorse la sua vita con le monache del Convento di Chaillot. Qualche anno più tardi, dopo la morte di Guglielmo d’Orange un gruppo di Lords fedeli agli Stuart propose a Beatrice il riconoscimento a favore del principe quale sovrano da parte del Parlamento inglese a condizione che abbracciasse, almeno formalmente, la fede protestante. Fu tutto inutile, Giacomo, chiamato anche il”Cavaliere di S. Giorgio” oppose un netto rifiuto col quale rinunciò apertamente al trono. Ilresto della vita di Maria fu spesa nel proteggere e nel tentativo di rendere suo figlio il legittimo re di Gran Bretagna. Quando il Re di Francia, Luigi XIV morì, il suo sostegno finanziario fu interrotto e Maria Beatrice trascorse il resto della sua vita nella tristezza e nella povertà. Morì di cancro al seno nel 1718, diciassette anni dopo il marito, e fu sepolta nel Convento della Visitazione.

UN LONDINESE A MODENA… PER AMORE

C’è chi parte per inseguire la carriera, chi per fuggire da un Paese che non lo soddisfa, chi invece lo fa per amore: è questo il caso di David Steiner, cittadino inglese e residente a Modena dal 1997 . La sua decisione di trasferirsi in Italia è stata dettata dal cuore, per seguire la donna che poi è
diventata sua moglie, Rosy. Oggi David lavora a Modena come consulente per startup innovative e aziende in cerca di investitori stranieri.

David Stainer, raccontaci di te  
Sono nato a Londra nel 1965 da una famiglia vissuta a Londra da generazioni. Dopo gli studi superiori mi sono trasferito a Birmingham per frequentare l’Università alla facoltà di ingegneria industriale ed economia, conseguendo la doppia laurea. Nel 1987 sono entrato nel mondo del
lavoro come commercialista tirocinante presso la Kpmg, una delle società più importanti nel campo della revisione e consulenza manageriale mentre nel 1992 ho avuto l’abilitazione per svolgere l’attività di commercialista.

Quando hai visitato l’Italia per la prima volta?
Ero solo un bambino quando, insieme ai miei genitori, ho affrontato un viaggio indimenticabile in Italia e la città di Firenze mi è rimasta nel cuore. Così, nel 1992, quando la ditta per cui lavoravo mi propose un possibile inserimento nell’ufficio di Firenze, lo accettai con entusiasmo. Purtroppo all’ultimo momento l’opportunità di venire in Italia sfumò così accettai un altro incarico a Rio de Janeiro dove rimasi fino al 1995. Tornato a Londra la mia vita è cambiata: ho conosciuto la donna che poi sarebbe diventata mia moglie. Lei, Rosy, modenese d’adozione, soggiornava a Londra per motivi di studio. L’iniziale colpo di fulmine si è trasformato in amore, così ho preso in considerazione l’opportunità di trasferirmi in Italia. Ho iniziato a lavorare, proprio a Firenze e
sempre con la Kpmg, come revisore, assistendo un’azienda importante di Bologna a quotarsi in Borsa, e poi mi sono specializzato nell’affiancamento di aziende straniere in cerca di opportunità di investimenti in Italia. Nel 1997, ho ottenuto la residenza a Modena anche se ero sempre fuori casa
per lavoro.  

Di cosa ti occupi qui a Modena?
Dal 1997 in poi, ho potuto avere una ricca vita professionale con la possibilità di acquisire nuove capacità personali e prospettive culturali, oltre a sviluppare competenze in diversi ambiti tecnici. Ho lavorato a Milano, Firenze e Roma ma sempre sulla scena internazionale sia in due dei “Big4” sia nell’industria potendo conoscere settori nuovi come quelli aerospaziale e difesa e della tecnologia all’avanguardia.  Tre anni fa, con ormai tanta esperienza alle spalle, ho aperto la mia società di consulenza, Boss Advisory, con sede a Modena, la mia città adottiva.  Basandomi quindi in un luogo con un forte tessuto imprenditoriale e tradizioni nell’innovazione notevoli, ora seguo startup innovative fino ad aziende medio piccole strutturate in cerca di investitori stranieri oppure desiderose di affacciarsi sul mercato nazionale o straniero. Allo stesso tempo, continuo di collaborare con studi internazionali su progetti specifici. 

Cosa ti lega ancora all’Inghilterra?
Sicuramente la mia famiglia. Mia madre e mio padre vivono ancora a Londra e io e la mia famiglia trascorriamo con loro le vacanze estive. Sono ancora molto legato a quei luoghi, alla mentalità creativa e cosmopolita ed anzitutto alle amicizie storiche. Ma non solo. Dal 2011 vado ogni tanto a Londra in quanto parte del Keats-Shelley Memorial Association dopo la mia nomina come tesoriere della Keats-Shelley House, l’ultima dimora di John Keats che si trova accanto alla scalinata di Piazza di Spagna a Roma, dove il celebre poeta vi morì, nel 1821 a venticinque anni. Il nostro patron è Carlo d’Inghilterra, il Principe di Galles. Nel 1906 la casa in cui morì Keats fu interamente acquistata dalla Keats-Shelley Memorial Association mentre nel 1909 fu aperta al pubblico. Migliaia di visitatori ammirano le collezioni di quadri, sculture, manoscritti, oggetti e prime edizioni delle opere di Keats, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron, ovvero i più importanti esponenti della seconda generazione romantica inglese. Ogni anno l’Associazione e lo staff della casa museo organizzano eventi per commemorare la vita dei poeti e promuovere l’espressione scritta in genere; l’anno prossimo, con il bicentenario della morte di Keats in vicinanza, ci saranno
tante belle iniziative nel Regno Unito e a Roma per celebrarla. 

A Londra avete la Monarchia. Conoscere la Regina Elisabetta II è il desiderio di chi ama la cultura e la lingua inglese. Hai mai avuto occasione di conoscerla?  
Sì, oltre dieci anni fa io e Rosy siamo stati invitati ad un Tea Party nei giardini di Buckingham Palace. E’ stato un meeting molto partecipato anche se, purtroppo, non siamo riusciti ad avvicinare la Regina e conoscerla personalmente. Siamo invece rimasti piacevolmente impressionati dalla cordialità e socievolezza del principe Filippo, Duca di Edimburgo e consorte della Regina. E’ stata un’occasione unica nel suo genere. Sono molti i connazionali che vogliono lavorare o fare impresa in Inghilterra. A tuo parere quali sono i vantaggi di business per una azienda italiana che vuole fare questo passo?
Sicuramente in Inghilterra un’azienda ha più possibilità di ottenere finanziamenti e capitali in modo più veloce, flessibile e con meno costi.  Meno burocrazia e più libertà alle aziende. Al contrario in Italia trovare finanziamenti e/o investitori è più difficile e più caro mentre il venture capital non è ancora così sviluppato in Italia come all’estero. Per questo tante aziende cercano di ampliare le proprie opportunità di business aprendosi ad altri mercati, da quello inglese fino alle
aziende con sede nellgli USA o nei paesi del Commonwealth britannico. A Londra le opportunità di crescita per una azienda sono favorite anche da un massiccio ricambio di personale qualificato che lascia spazio per le nuove sfide. Non dimentichiamo che Londra è il più importante hub finanziario
e tecnologico in Europa e destinazione privilegiata per le startup e le aziende innovative.  

A proposito di Brexit, sono tante le domande che un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Europa solleva. A suo parere quali sono i vantaggi e gli svantaggi per un cittadino inglese residente all’estero?
Non sono un esperto ma è possibile che gli effetti della Brexit colpiranno quei cittadini inglesi residenti all’estero che hanno sposato il progetto ‘Europa’.   Io, pur essendo residente a Modena, non ho la cittadinanza italiana ed ora devo valutare il percorso della doppia cittadinanza, italiana e inglese, che hanno le mie due figlie. Per persone come me che abitano qui da anni, sposato e con una professione dovrebbero cambiare poco le cose con la Brexit, ma non vedo particolari vantaggi.  Anzi, sono sorte tante incertezze che riguarderanno la vita del cittadino a lungo termine. Dopo la Brexit, per certe cose oggi agevolate all’interno della comunità europea, sarà necessario fare tutte le pratiche. Ma il problema più importante, a mio parere, è la salute. Oggi, in quanto
cittadino inglese residente in Italia, ho pieno accesso al sistema sanitario italiano. Dopo la Brexit, invece, non è detto che ciò permanga ed allo stesso tempo non avrò diritto alle prestazioni sanitarie in Inghilterra essendo un non-residente.  Ci auguriamo che con il tempo si attenuino i disagi mettendo mano agli accordi bilaterali considerata anche la massiccia presenza di italiani in Inghilterra (circa 400.000 iscritti all’Aire, Anagrafe italiana Residenti all’Estero) e 200mila già iscritti al Settlement Scheme, la piattaforma del governo britannico per permettere ai cittadini Ue residenti nel Regno Unito di mantenere i propri diritti.

Quali sono le lezioni positive che hai imparato dopo aver vissuto la vita in Italia e a Modena?
L’Italia é piena di bellezze e gli italiani hanno grandi qualità e così si viene ad apprezzare la vita al di fuori di quella lavorativa. In più, gli italiani hanno la capacità di districarsi nelle situazioni più complicate. In base alla mia esperienza i modenesi sono bravi nel problem solving – ma si deve sapere come prenderli e gestire le sfide quotidiane.  Sicuramente vivendo e lavorando a Modena e in tante città italiana nel corso della mia vita, ricche di storia, cultura, tradizione ed innovazione, ho imparato ad essere più flessibile, paziente ed aperto sapendo che ogni persona che incontri ha il suo carattere e un modo personale di vedere le cose. Non si può generalizzare. Insomma, occorre capire le sfumature di ogni situazione ed altrettanto gli stimoli vanno vissuti al massimo.

Intervista di Laura Corallo pubblicata sul magazine ‘Arte di Vivere a Modena’

LO CHEF STELLATO VALENTINO CASSANELLI: PORTO LA MIA MODENESITA’ IN VERSILIA

Incontriamo Valentino Cassanelli, uno dei migliori chef di talento di nuova generazione.  Modenese, classe 1984 e grande amante dei viaggi e culture diverse, soprattutto gastronomiche, ha dimostrato di avere idee molto chiare sul suo futuro dall’età di 14 anni, durante i suoi studi alla Scuola Alberghiera di Serramazzoni. Valentino ha alle spalle importanti collaborazioni con Giorgio Locatelli, Andrea Berton, Carlo Cracco. Proprio quest’ultimo, nel febbraio del 2012, ha presentato Valentino al “Principe di Forte dei Marmi”, in Versilia, come Executive Chef e Food & Bevarage Manager. Un talento della cucina tutto modenese ma prestato alla Versilia e una passione premiati con numerosi riconoscimenti professionali fino all’assegnazione nel 2017 della prima stella Michelin.

 

Da dove è iniziata la sua passione per la cucina? In quale occasione ha pensato “voglio fare il cuoco”?

Nascendo in una famiglia classica modenese, originaria di Spilamberto, la cucina è sempre stata una passione. Da bambino ammiravo mia nonna e mia mamma intente a tirare la sfoglia, fare i tortellini e le tagliatelle. Quando i miei genitori andavano a lavorare, e io ero a casa da scuola, preparavo loro il pranzo o la cena. Anche se il risultato dei miei manicaretti non era perfetto, era tanta la soddisfazione nel vedere la loro gioia quando si sedevano a tavola. Per questo l’scrizione alla Scuola Alberghiera di Serramazzoni, dopo la Terza Media, è stata una scelta naturale.

Lei vanta alcune esperienze all’estero lavorando con chef stellati. Cosa le hanno trasmesso?

Avevo 16 anni appena compiuti quando sono partito per Londra per uno stage di due mesi al Floriana Restaurant, per imparare l’arte di internazionalizzare i piatti.  Giovane, abituato ai ritmi della provincia, sono rimasto folgorato dalla capitale inglese, imparando e scoprendo culture e modi di cucinare differenti. Qui la mia passione per la cucina si è ulteriormente rafforzata. E proprio a Londra, dopo la maturità, ho deciso di ritornare per porre le basi di partenza della mia futura carriera. Ho lavorato alla Locanda Locatelli nella centralissima Seymour Street, ristorante molto celebre nel Regno Unito tra gli amanti della cucina italiana e gestita da Giorgio Locatelli. In seguito sono passato in uno dei ristoranti dello Chef Giapponese Nobuyuki (Nobu) Matsuhisa, precursore della cucina fusion. Proprio qui ho trascorso un anno molto importante e formativo che ha ampliato le mie conoscenze sia a livello gestionale che culturale. Come suggeriva lo chef del Nobu, in cucina bisogna ricercare la contemporaneità senza dimenticare le proprie radici e quelle del proprio territorio.

Poi l’incontro con lo chef Carlo Cracco, figura determinante per la sua carriera

Tornato in Italia, nel 2006, decisi fortunatamente di mandare il curriculum a Cracco, uno degli esempi più importanti per la mia carriera, che all’epoca guidava il ristorante storico in via Victor Hugo a Milano. Ottenni la risposta dopo mezzora. Il caso ha infatti voluto che avessero bisogno di personale così, dopo pochi mesi, ho iniziato a lavorare per lui. Ricoprivo il ruolo di chef  ”entremetier”, l’incaricato di tutti i primi piatti. Ricordo ancora il piatto simbolo di Carlo Cracco, il Raviolo a bottone ripieno di maionese in salsa verde, e mentre lo preparavo pensavo tra me e me, “se mia nonna mi vedesse fare i ravioli con la maionese forse mi prenderebbe a schiaffi!”

Lavorare con Chef di questo calibro è stato quindi molto formativo per lei

Certo, queste esperienze hanno ampliato ancor di più la mia visione della gastronomia. Nel periodo trascorso a Londra alla Locanda Locatelli ho compreso l’importanza della ricerca della materia prima: lì utilizzano prodotti italiani selezionati, dalle puntarelle arrivate dalla Toscana, al salume emiliano fino alla bufala direttamente dalla Campania. Al Nobu ho apprezzato l’attenzione alla fusione tra tradizione e contemporaneità mentre con Cracco la cura degli ingredienti e la sostenibilità in cucina.   

Come è arrivato a lavorare all’Hotel Principe in Versilia?

Devo a Cracco la grande occasione di lavorare all’Hotel Principe Forte dei Marmi, un 5 stelle lusso. All’epoca lui era consulente esterno dell’Hotel ma la General Manager, Cristina Vascellari, voleva uno Chef Resident per l’Hotel Principe e poi del ristorante gourmet Lux Lucis, che io stesso ho contribuito a progettare. L’arrivo, nel 2017, della prima Stella della Guida Rossa Michelin, ci ha dato ulteriore visibilità e aiutati nell’approccio con il cliente tanto da spingere la proprietà ad investire su nuovi obiettivi. Abbiamo ricevuto numerosi riconoscimenti. Il ristorante vanta anche 4 cappelli conferiti da le Guide de l’Espresso, premi in bacheca come il “miglior pane 2018” da Identità Golose, e la “miglior pasta 2019” da le Guide dell’Espresso. Essendo un’azienda giovane cerchiamo di costruire un grande progetto, senza porci troppi limiti ma con i piedi per terra.  

Come sceglie gli ingredienti dei suoi piatti e quanto è presente la tradizione modenese nella sua cucina?

La modenesità nei miei piatti è sempre presente perché è dentro di me e nelle mie radici. Utilizzo tanti prodotti che ricordano la mia terra: le amarene, le ciliegie, ad esempio, sono prodotti spesso presenti nel mio menù. Inserisco sempre sfumature di parmigiano mentre uso con parsimonia l’aceto balsamico, un ingrediente che amo molto ma uso solo in piatti selezionati. Nella mia cucina contemporanea le due tradizioni gastronomiche, toscana ed emiliana si fondono. Un esempio: una grande differenza tra la cucina toscana e la cucina emiliana, entrambe di altissima qualità, è l’aggressività del gusto. La cucina toscana è d’impatto, potente e ricca di gusti. Quella emiliana è invece elegante, confortevole al palato, quasi vellutata nelle sue paste ripiene nei bolliti dal gusto pieno e rotondo. Quindi anche i piatti tipici della Versilia suggeriscono quella parte elegante e delicata ispirata alla cucina emiliana delle mie origini.

Chi cucinava meglio a casa sua? Da chi ha imparato?

Tutte le domeniche la nonna veniva a casa nostra e tirava la sfoglia con il mattarello e io rubavo il ripieno dei tortellini. Questo è il ricordo più presente nella mia memoria. Il “rubare” il ripieno del tortellino credo sia, per noi modenesi, un gesto innato. L’anno scorso ho lanciato il percorso degustazione On the road via Vandelli, l’antica strada voluta dal duca Francesco III d’Este e disegnata dall’abate, ingegnere e geografo Domenico Vandelli per collegare Modena a Massa nel XVIII secolo. Si trattava di un percorso degustazione che univa proprio le mie radici a quello che sono ora. Il primo piatto si chiamava, appunto, Radici. Era un tortellino trasformato in una sfoglia di carne ripiena di mortadella grattugiata e noce moscata da mangiare con le mani con un fondo di radici ridotto e un brodo di soffritto da mangiare a parte con il profumo del brodo che andava sul fuoco. Come quando ero bambino sentivo il ripieno nella bocca e nello stesso tempo la lunghezza delle radici intese come quelle della mia terra ma anche come radice dentro ognuno di noi. All’interno delle radici mettevamo poi in infusione i malli delle noci e del nocino in ricordo della tradizione del Nocino diffuso nel modenese.

La ristorazione riscuote grande interesse da parte dei giovani e in molti desiderano intraprendere una carriera nel settore. Cosa consiglia a chi, oggi, vuole avvicinarsi alla professione?

Negli ultimi anni la cucina è diventata molto presente nei format televisivi è tanti giovani ambiscono a diventare chef. E’ una professione che richiede anni di gavetta, sacrifici e impegno. E richiede una grande passione, quella che ti fa dimenticare la stanchezza delle tante domeniche e festività passate al lavoro e alle innumerevoli ore in piedi. Però le soddisfazioni sono tante. Questo lavoro è bellissimo e versatile: ti fa conoscere persone, culture diverse, viaggiare. Puoi lavorare come chef sulle navi, stagionale in giro per il mondo oppure ne alberghi o nei ristoranti. Il mio consiglio è di avere umiltà, apertura mentale, far evolvere la propria passione e integrarla nella propria vita perché fare il cuoco non è un mestiere ma uno stile di vita.  

Quali sono le maggiori difficoltà che ha dovuto fronteggiare nella sua carriera?

Il lavoro in cucina è molto gerarchico. Dallo Chef al lavapiatti, la “Brigata” è composto da molte figure che contribuiscono al buon funzionamento della cucina. Questo aspetto viene spesso sottovalutato. Quando sono arrivato all’Hotel Principe non avevo mai lavorato in un albergo. Dal primo giorno ho dovuto organizzare un team di ragazzi dalla mattina, con le prime colazioni, fino alla copertura di notte. Gestire il personale in cucina è una delle cose più difficili. Riuscire a trovare l’equilibrio, lo spirito di squadra, la capacità di lavorare insieme per raggiungere un obiettivo comune. Questo deve fare lo Chef, mantenere le redini ma con leggerezza, per trasformare lo sforzo e il sacrificio di tutti in una bella atmosfera che si trasmetterà poi al cliente.

Intervista di Laura Corallo pubblicato sul magazine ‘Arte di Vivere a Modena’

OGNI VIAGGIO UNA STORIA

Incontriamo Francesca Pradella, fotografa professionista modenese specializzata in eventi, matrimoni e bambini ma con una predilizione per la natura e gli animali, complici un nonno che faceva il veterinario ed il primo libro ricevuto in regalo da bambina, un’Enciclopedia illustrata proprio della fauna. Negli ultimi anni, grazie alla macchina fotografica, Francesca ha viaggiato in tutto il mondo, per documentare culture, storie, persone ed emozioni.

 

Hai iniziato a viaggiare da sola all’età di 16 anni. Raccontaci il tuo primo viaggio

Il Liceo Classico Muratori di Modena, che frequentavo, partecipava ad una iniziativa chiamata MEP ( Model European Parliament ), un progetto presente in tutta Europa che permette agli studenti di vestire i panni degli europarlamentari, simulando una vera sessione del Parlamento Europeo. Dopo aver superato le selezioni della scuola e anche quelle nazionali, sono partita per la  Slovenia insieme ad altri 9 studenti di diverse regioni, in rappresentanza dell’Italia. Ho rullini molto buffi di quel tempo a Lubiana, tra discussioni sui diritti umani ( la Commissione che mi era stata assegnata ) e serate spensierate fra le strade della città. E’ stata una esperienza formativa che mi ha arricchita sul piano personale: ho imparato a lavorare in squadra e a parlare in pubblico.

Partecipi, come fotografa, a numerosi festival ed eventi importanti in tutto il mondo. Come hai iniziato e come organizzi il tuo lavoro?

Ho iniziato a frequentare Venezia tramite un collega e caro amico fotografo, Corrado Corradi, conosciuto perché eravamo entrambi membri della giuria di un concorso fotografico sui cani, organizzato dal Canile intercomunale di Modena. Quando ho iniziato a scrivere e fotografare per Profilo Donna Magazine, ormai dieci anni fa, ho poi potuto accedere, come fotoreporter ufficiale e accreditata, al tappeto rosso. Ho coperto per diversi anni anche il Festival del Cinema di Cannes, presenziato al BFI London Film Festival, uno dei festival cinematografici più prestigiosi a livello europeo e scattato alla Festa del Cinema di Roma. Amo molto i film e sono fortunata a poter conciliare entrambe le mie passioni.

Avrai incontrato parecchi personaggi famosi…

Beh, quando mi chiedono com’è incontrare le celebrities, rispondo con la verità: mi passano davanti per pochi secondi in cui ho la reflex davanti alla faccia, non ho il tempo di entusiasmarmi e non posso perdere l’attimo. Ammetto, però, che quando, per caso, mentre bevevo un caffè fuori dalla sala stampa del Palais Du Cinema, mi sono voltata e ritrovata Steven Spielberg a mezzo metro di distanza, un pò di emozione c’è stata. Oppure quando mi sono imbattuta in Gabriele Salvatores nell’ascensore dell’Excelsior a Venezia, stipati con una comitiva di stranieri; non ricordo che battuta avesse fatto ma ci abbiamo riso un bel pò! Quando siamo usciti, mi ha scritto un biglietto con dedica “ Alla mia paparazzi preferita. “ Ovviamente, è custodito gelosamente fra i miei cimeli!

Un po’ per amore e un po’ per lavoro hai frequentato Oxford per due anni. Cosa ti è rimasto di quella città?

Per due anni ho seguito a Oxford il mio compagno Gianluca Rompianesi, anche lui modenese che in quel periodo lavorava come chirurgo e ricercatore presso il Churchill Hospital, un ospedale universitario. La quiete delle sue strade ed il verde ad ogni angolo. L’impressione che ho avuto vivendo in Inghilterra è che fosse il paesaggio urbano ad adattarsi alla natura e non viceversa, come quasi sempre accade. Varchi la soglia di questi college dalla storia centenaria, dove hanno studiato alcuni dei miei miti, da Oscar Wilde a Stephen Hawking o Matthew Ridley e, nei loro giardini, ti ritrovi laghi, fiumiciattoli navigabili con barchette, cervi che brucano nei prati. Magicamente surreale. Mi manca anche la cucina etnica e la vicinanza maggiore agli Stati Uniti, in termini di libri, mode, prodotti. Novità che, in Italia, arrivano sempre in differita.  Sono da sempre appassionata della lingua inglese, cresciuta a pane, sorelle Brontë, Yeats. Sentire questa lingua risuonare per le strade, nei supermercati, sul bus a due piani, era un plus piacevole. Oxford è davvero una realtà a misura d’uomo, capace di offrire eventi culturali di notevole levatura e svago semplice e bucolico nella campagna. E poi, dista a circa un’ora di auto dall’ineguagliabile Londra.

 Sei stata l’unica donna europea a partecipare ad un importante festival a New York. Cosa ne pensi di questa città e del suo stile di vita?  

Ero già stata in vacanza nella città precedentemente, ma tornarci per lavoro, per fotografare i red carpet, è stato un vero onore. Non sei tu che decidi se ti piace New York: lo decide la città per te. Ti ingloba, ti mastica e ti rigetta diversa da come ci sei arrivata, non importa per quanto poco ci starai. C’è una sensazione di alienazione e di familiarità al contempo, che mi ha fatta innamorare da subito. Delle sue rarità come dei suoi cliché. Amo la totale accettazione delle stranezze umane, che solo lì avviene come forse da nessun altra parte al mondo. Le lacrime inevitabili al memoriale delle sue vittime, le risate al luna park di Staten Island, la cultura provocatoria del MOMA, l’eleganza senza tempo del Museo di Storia Naturale a Central Park West, lo shopping di libri usati da Strand. Io, davvero, non saprei cosa consigliare di vedere ma, sicuro, è una di quelle mete che non possono mancare nella lista di un viaggiatore.

Sei passata da un matrimonio in Pakistan fino al Giappone. Raccontaci qualche aneddoto.

Il matrimonio in Pakistan è stato un’esperienza che mi ha arricchito umanamente più di quanto avrei creduto possibile. Essere quasi sempre l’unica straniera in mezzo alla folla, è stato particolare: spesso venivo fermata per strada dai passanti che chiedevano di farsi foto insieme a me! Un paese affascinante ed ancora misterioso, che ha subito acremente lo spettro del terrorismo a livello turistico; una destinazione da considerare, se si desidera immergersi in tradizioni uniche. Ma con la mentalità di chi rispetta la diversità, anche quando è più complessa da capire. Mi ha emozionato molto vedere la parte pakistana dell’Himalaya, uno spettacolo commovente. Nei giorni precedenti il matrimonio, le donne decorano mani e piedi con l’henné: lo hanno fatto anche a me ed è stato un gesto che ho apprezzato molto, non solo per estetica ma anche per l’accettazione della mia presenza che non davo per scontato.

Invece in Giappone?

Ho visitato il Giappone una prima volta per piacere e poi, in seguito, per un viaggio di lavoro. Quando, nel mio giorno libero, mi sono recata a Nagano per fotografare le scimmie di Jigokudani, mi sono risentita dal non avere mai foto in questi posti che fotografo, perché sempre da sola. Ho fermato un signore a caso, gli ho dato in mano il cellulare, inquadrato la scena e chiesto di scattarmi una foto, secondo istruzioni un pò precise. Poco dopo ci siamo presentati ed era un fotografo del National Geographic. Volevo sprofondare dall’imbarazzo! Siamo rimasti in contatto ed è una conoscenza che mi fa apprezzare ancora di più il viaggi o la casualità, i fili che l’universo tende senza che ce ne accorgiamo. 

Durante un viaggio in Thailandia hai realizzato un importante reportage sugli elefanti maltrattati. Di cosa si tratta?  

Sono diversi anni che sto portando avanti un reportage sulla cattività, visitando diverse strutture in tutto il mondo. A Krabi, mi sono recata all’ Elephant Sanctuary, dove gli elefanti vengono salvati e protetti dallo sfruttamento dell’industria turistica. Se vi domandate sia giusto cavalcare un elefante, la risposta è no, per via delle condizioni in cui vengono tenuti. Questi centri hanno bisogno di molto supporto, perché mantenere un elefante non è propriamente economico. Si lavora, poi, per diffondere la cultura a livello locale, perché spesso questi animali sono considerati una minaccia per l’agricoltura, dal momento che capita che qualche esemplare fugga e vada a foraggiare nei campi limitrofi. E’ davvero ammirevole quello che queste persone cercano di fare, nonostante il pregiudizio e gli interessi economici di molti che li contrastano. 

Cosa rappresenta per te il viaggio e come ti ha cambiata negli anni?

Non esiste altro modo per ampliare le proprie vedute, nutrire l’empatia per l’altro ed arricchire in modo unico la propria cultura come quando si visita con occhi e mente “ puliti “ un altro paese. Il confronto con ‘l’altro’ mi mette di fronte alla mia ignoranza e mi fa vergognare di certe prospettive da privilegiata che, spesso, dimentico di avere. Viaggiare mi ha insegnato a rispettare l’ambiente, a non giudicare al primo sguardo, a rivisitare costantemente il mio concetto di felicità, ripulendolo dal consumismo e riportandolo all’essenziale. Italo Calvino scriveva: “ Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda “. Quando mi assalgono i dubbi, i punti di domanda mi tormentano come uno sciame fastidioso, afferrare il passaporto, la reflex e prendere un volo, sono sovente un modo utile per ritrovare la Francesca più autentica. Senza scordarmi che qualche risposta, probabilmente, è nascosta anche nella via di casa mia. 

 

Articolo di Laura Corallo pubblicato sul magazine ‘Arte di Vivere a Modena’

IL VIAGGIO DELLA MIA VITA: VIAGGIARE

Intervista alla sociologa modenese Milena Casalini, Dirigente presso la a Direzione Ausl di Modena e  Presidente del Cug (Comitato Unico di Garanzia) in qualità di esperta in Sociologia e Salute di Genere nell’ambito del contrasto alle discriminazioni.

Milena, come è nata la tua passione per i viaggi?

Il viaggio rappresenta una parte essenziale della mia vita.
Vedere posti nuovi e conoscere nuove persone mi entusiasma da sempre. Ho iniziato a viaggiare, in gruppo e per conto mio, dall’età di 20 anni. Poi, nel 1995 ho iniziato a viaggiare con Avventure nel Mondo (AnM) e dal 2004 sono diventata Tour Leader. AnM è un’associazione che dagli anni Settanta si occupa di esplorazione turistica, soprattutto in Paesi lontani e sconosciuti, al di fuori dei canali di turismo organizzato. Le mete abbracciano tutti i paesi del mondo, compresi i loro problemi come guerre o carenze igieniche. Si tratta quindi di un approccio ben diverso dalle agenzie classiche che evitano sempre le zone a rischio. Li definisco, in sostanza, viaggi di conoscenza, autentici e sostenibili, incontro e scoperta di terre, culture e popoli. Come Tour Leader mi occupo del coordinamento e conduzione dei gruppi e dell’attività culturale che promuove la cultura del viaggio.

Di cosa si occupa il Tour Leader?

ll tour leader è un viaggiatore esperto, il punto di riferimento del gruppo per tutta la durata del viaggio e supervisiona il fondo cassa di tutto il gruppo. Il suo compito è quello di creare coesione tra i partecipanti, gestire i rapporti con le persone del luogo ed arricchire il viaggio con l’esperienza e le conoscenze acquisite negli anni. Tra le competenze del Tour leader la conoscenza delle lingue straniere e destrezza nel risolvere problematiche che si possono creare, oltre ad ottime capacità organizzative e di relazione con i componenti del gruppo. Hai visitato 56 paesi in tutto il mondo, prevalentemente in modalità ‘discovery’, cioè in scoperta, attualmente codificata con la dicitura ‘viaggi in libertà’.

Parlaci di questo tipo di viaggio ‘hard’ rispetto a quelli più strutturati.

Il turismo d’avventura è fisicamente stimolante, adrenalinico. Al di là delle attività specifiche e delle esperienze, lo spirito dell’avventura è determinata dallo stato d’animo e dall’approccio del partecipante. Non c’è dubbio, poi, che l’approccio alla scoperta apre all’ azione e alla sperimentazione. Ti obbliga a stare in stretto contatto con la popolazione locale, ti fa vivere il posto che visiti in maniera totale, in ogni suo aspetto e sfumatura. Non è quindi una esperienza passiva ma un percorso anche interiore, una sfida intellettuale grazie all’esplorazione di nuovi luoghi e all’interazione diretta con le diverse culture che matura trascorrendo tempo con la gente del posto e mangiare cibo locale. Questo tipo di viaggio è un modo per mettere alla prova se stessi, imparando anche a gestire situazioni di disagio e riuscendo sempre a cavarsela in condizioni estreme. Essendo un viaggio all’avventura è possibile cambiare giorno per giorno o durante l’itinerario. Viaggiare secondo le proprie regole, lasciarsi trasportare dal luogo e spesso anche dagli imprevisti è una delle cose che queste tipologie di esperienze ti lasciano dentro.

I modenesi sono più viaggiatori o vacanzieri?

Modena, come tutte le città emiliane, offre numerose opportunità di conoscere e incontrare persone che sono più viaggiatori che vacanzieri. La differenza è fondamentale. Non si va in vacanza per cercare relax e divertimenti ma si viaggia per scoprire. In termini più adatti si può usare ”backpacker, il turista che viaggia con lo zaino in spalla che si muove con lo scopo di sperimentare su se stesso tutti i modi di vivere al meglio un paese, entrare in contatto con le persone, conoscere e sperimentare emotivamente. Il passaggio emotivo è la parte fondamentale di un viaggio. Ammetto che fare un viaggio con 10-15 kg sulle spalle non è per tutti perché giustamente per molti quando arriva il tanto atteso periodo delle ferie l’unico desiderio è rilassarsi. Ma ci sono anche persone che non vedono l’ora di mettersi in strada e iniziare a percorrere chilometri e chilometri alla scoperta di luoghi unici e spesso lontani dai circuiti più turistici.

Quali sono i paesi che hai amato di più e che in qualche modo ti hanno cambiata?

Non c’è una gerarchia, tuttavia posso suggerire una rosa di paesi che offrono esperienze capaci di creare dei cambiamenti profondi. Senza dubbio un viaggio in India rappresenta una esperienza di vita molto forte. Il ‘Bharata’, come viene definito nella Costituzione indiana presenta una grande varietà di religioni, culture, paesaggi popoli che vivono ancora molte difficoltà che la nostra cultura ha dimenticato e difficili da comprendere. Poi la Cina che, nell’ultimo secolo, è diventato un laboratorio sociologico e socio economico veloce e complesso. Conoscerla, anche attraverso la sua storia millenaria, diventa una pietra miliare per comprendere il suo impatto a livello globale. Gli Stati Uniti, ricca di contraddizioni culturali e sociali talmente radicate e complesse che in Europa facciamo fatica a capirle. Ho amato visitare il multietnico Perù, sede in passato di grandi civiltà e che ha conservato una cultura autentica proprio perché il territorio ha subito meno influenze causate dalla conquista degli europei. Aggiungo poi paesi più piccoli ma particolari come il Giappone oppure Cuba con le sue sperimentazioni socio politiche affiancate dal loro amore per la musica e una grande forza insita nello spirito meticcio di questo popolo. In Europa, da conoscere anche per l’aspetto naturalistico, menziono l’Irlanda, luogo pullulante di arte e musica. Infine i Paesi dell’Est Europa, come l’ Albania, che osservano con estrema ammirazione l’Italia ma che si differenziano per una grande voglia di riscatto e una capacità di guardare in modo propositivo al futuro.

Raccontaci la storia di due donne incontrate in occasione di questi tour e che ti hanno particolarmente colpito?

Il primo incontro durante un viaggio in Yemen, un paese perennemente in guerra, difficile da scoprire e spesso inaccessibile anche ai viaggiatori più esperti. La società yemenita è una società tribale che ha norme sociali che limitano ulteriormente il ruolo delle donne e che impongono ad esse ruoli specifici, ad esempio sull’aspetto sociale, limitandole ai lavori domestici e all’allevamento solo i figli. Eppure, mi ha colpito il coraggio di una ragazza di 25 anni che, contro ogni convenzionel sociale, ha scelto di affermare se stessa nel lavoro, operando come guida turistica. In India, invece ho conosciuto una donna padovana di 60 anni, libera, avventurosa, con un bagaglio esperenziale e di vita. Era una viaggiatrice esperta, sia in gruppo che in solitaria, e aveva avviato attività imprenditoriali commerciando oggetti che acquistata nei Paesi del Terzo Mondo. Sono rimasta colpita dalla sua incredibile autonomia e personalità, costruita nel tempo anche grazie ai numerosi viaggi ed esperienze.

L’avventurosa storia di Giorgio Zini  

Giorgio Zini, ci racconti la sua esperienza

Sono nato a Corlo nel 1953 da una famiglia umile e di origine contadina. La scuola non era una priorità, a casa occorrevano braccia per lavorare in campagna. Sono riuscito tuttavia a prendere il diploma di Terza Media dopo il Servizio Militare. Il miglior maestro, per me, oltre alla famiglia, è stato il viaggio: per dodici anni, dal 28 dicembre 1981 al giugno 1993, ho vissuto per lavoro in Medio Oriente, tra Iraq e Pakistan. Una esperienza intensa, difficile e, a tratti, pericolosa, ma che mi ha aiutato ad aprire la mente, comprendere il mondo e a sviluppare empatia verso persone e culture diverse.

Quando ha deciso di partire?

Nel 1974 sono stato coinvolto in un incidente d’auto avvenuto nei pressi di Formigine, dove ha perso la vita l’amico che mi accompagnava. Io sono stato ritenuto responsabile dell’incidente con l’obbligo di risarcire il danno nei confronti della famiglia della vittima. Così, l’unico modo per ripagare l’ingente debito era guadagnare di più lavorando all’estero.

Come ci è riuscito?

Fui assunto alla Fiat Trattori, con sede a San Matteo a Modena, un produttore di macchine agricole tra i più grandi nel mondo, nel centro di assistenza dei trattori nuovi. L’azienda, diventata in seguito Fiat Agri, fu trasferita nel 1928 da Torino a Modena, dove è stata fondata l’OCI (Officine Costruzioni industriali) con un accordo tra la Fiat Torino e le Officine meccaniche reggiane, che misero a disposizione lo stabilimento di loro proprietà di Modena. In questa fabbrica mi occupavo della manutenzione dei trattori che avevano un anno di garanzia. In seguito, ho conosciuto la squadra esteri impegnata nei rapporti commerciali con l’estero, in particolare con il Medio Oriente. Quando venni a sapere che l’azienda stava cercando personale da inviare nelle sedi locali in Iraq, mandai la mia candidatura.

La situazione in Iraq, all’epoca, era piuttosto turbolenta…

Erano gli anni ’80, Saddam Hussein, Presidente dell’Iraq fino al 2003, aveva acquistato migliaia di trattori dalla Fiat di Modena. L’obiettivo era di incoraggiare lo sviluppo dell’agricoltura e la coltivazione della terra rendendo fertile quella che un tempo era conosciuta come Mesopotamia o Mezzaluna fertile, terra bagnata dal Tigri e dall’Eufrate e ricca di risorse. Il fellah (contadino arabo) era la figura centrale in questa politica rurale, simbolo del radicamento alla terra e delle tradizioni locali. Qualche anno dopo, lo scoppio della guerra tra Iraq e Iran cambiò drammaticamente la situazione. I dipendenti di Fiat Trattori Modena che prestavano servizio nelle sedi irachene, furono richiamati immediatamente a casa, soprattutto quelli con famiglia a carico, perché la situazione stava diventando molto pericolosa.

A quel punto furono necessari altri lavoratori da inviare nel territorio iracheno?

Certamente. Il contratto tra Fiat Trattori e il Governo iracheno era ancora in essere e doveva essere rispettato, nonostante la guerra. Così la ditta si mise alla ricerca di lavoratori disponibili a trasferirsi, preferibilmente scapoli oppure sposati ma senza figli. Io ero scapolo e mi candidai. Era il 28 dicembre del 1981, avevo 28 anni.  I lavoratori che partirono da Modena furono soprannominati ‘votati alla morte’ proprio perché non esisteva garanzia di ritorno a casa. Firmai comunque un contratto di due anni e partii.

 

Come ha vissuto in quei luoghi?

Vivevo nei villaggi con i contadini. Ho vissuto una vita rozza e grezza. I fellah, radicati alla terra, coltivavano i campi in autonomia con i loro mezzi di produzione. In quei contesti si dava valore alla relazione, condivisione e rispetto delle tradizioni. Queste ultime in maniera più forte rispetto alla città. I miei colleghi hanno sofferto questa condizione di vita in assenza di comodità, alcuni hanno sfiorato la depressione. Invece le mie origini contadine mi hanno aiutato: ricordo che da piccolo aiutavo mio padre a trebbiare il grano nei terreni di famiglia intorno a Formigine fino a Serramazzoni e Faeto. La notte dormivamo su pagliai di fortuna, non era raro prendere i pidocchi. Quella vita la conoscevo perciò mi sono adattato bene in mezzo a loro.

Le sue giornate tipo?

Non esisteva un giorno uguale all’altro. Gestivo in autonomia il mio lavoro, non avevo l’obbligo di timbrare il cartellino. Il mio lavoro mi portava in giro in lungo e in largo per l’Iraq, nei vari distaccamenti Fiat, per scaricare e fare assistenza ai trattori. Mi muovevo tra Bagdad, Sinjar, Mosul fino ad Abou Ghraib, nel cui carcere scoppiò lo scandalo delle torture da parte degli americani. Arrivati sul posto scaricavamo i trattori, cercando di fare più in fretta possibile, e andarcene. Dopo il lavoro tornavo a casa e passavo il tempo con gli amici. Ricordo i giri in campagnola e in jeep ma anche le calde e secche serate d’estate. Le condizioni di vita erano disagiate ma sono riuscito ad adattarmi. Essendo in campagna l’acqua non era potabile. Quella da bere si bolliva. In alternativa bevevo l’acqua direttamente dai ruscelli e dagli stagni con i pesci, non sempre, però, pulita e trasparente.

Tra i tanti luoghi visitati quale le è rimasto nel cuore?

Senz’altro la città di Ninive, uno dei più importanti siti archeologici al mondo. Ho vissuto due anni a Mosul, a poca distanza da Ninive, capitale del regno assiro. E’ stato un grande dolore sapere che le truppe dell’Isis, nel 2015, hanno distrutto i resti di questa antica città, oltre a molti significativi monumenti archeologici.

In Pakistan ha incontrato sua moglie. Come vi siete incontrati?

Ho conosciuto mia moglie ad un party. Nata a Roma, occupava all’epoca il ruolo di segretaria dell’Ambasciatore italiano in Pakistan, Arduino Fornara. Avevamo molte affinità ed entrambi avevamo girato il mondo. Poco dopo ci siamo sposati in ambasciata con una cerimonia officiata dallo stesso Fornara. Per trasferirmi a Islamabad, mi sono dimesso dalla Fiat per firmare un contratto di due anni con la ditta Iori di Reggio Emilia. Qui mi occupavo dell’assistenza per i macchinari agricoli distribuiti in tutto il paese, mungitrici, falciatrici, girando il Pakistan da nord al sud, fino ai confini con l’India e la Cina e sfiorando la catena dell’Himalaya.

Lei ha vissuto anche il periodo della guerra in Afghanistan

Ricordo anni di alta tensione perché l’Afghanistan era martoriata dalla guerra civile, con milioni di profughi che dipendevano dagli aiuti umanitari per fornire i servizi essenziali, anche sanitari. I mujaheddin formarono l’Alleanza del Nord e si scontrarono contro i Talebani per il controllo del paese afghano. La guerra civile sfociò, nel 1979, con l’assassinio del presidente dell’Afghanistan, Hafizullah Amin e il colpo di stato con cui l’esercito sovietico occupò Kabul e segnò l’inizio dell’invasione sovietica dall’Afghanistan. In quel periodo tutto il paese era punteggiato da migliaia di campi profughi e sfollati, mentre i feriti venivano accolti nelle tende adibite ad ospedale. Io stesso, su esplicita richiesta dei medici, ho donato il mio sangue ai mujaheddin combattenti che dovevano essere sottoposti ad operazione chirurgica.

 

A sua moglie piaceva questa vita?

Per quasi tutto il periodo, e specialmente i primissimi anni, un’esperienza entusiasmante perché le condizioni di vita per noi erano estremamente favorevoli. Essere stranieri in Pakistan dava adito a tanti privilegi perché eravamo in una condizione economica nettamente superiore ai locali. Lei ha potuto concretizzare il suo desiderio di vivere per conto suo con tutti i vantaggi di una grande casa ma senza gli svantaggi di doverla pulire, perché tutti gli stranieri avevano almeno 2 domestici. Poteva quindi permettersi il lusso di fare inviti frequenti e godersi momenti di relax in giardino, dedicarsi alla lettura, o alle visite a colleghi della sua Ambasciata o di altre. Le Ambasciate si occupavano, in alcuni periodi dell’anno, di manifestazione per la beneficenza nei confronti di ospedali poveri: si organizzavano a comprare prodotti tipici delle loro nazioni per poi rivenderle in un mercatino collocato nel cortile della Nunziatura Apostolica.  Anche da un punto di vista professionale ha avuto modo di vedere da vicino avvenimenti e incontri a livello internazionale oltre, dopo aver conosciuto me, a venire a contatto con delle realtà locali che, in parte viveva già con i domestici e alcuni impiegati locali dell’Ambasciata.

 

Quando siete ritornati in Italia definitivamente?

Dopo alcuni anni, nonostante il folklore del posto, è cominciata a subentrare una certa routine e la mancanza di “cose” occidentali, di vecchi amici, di aria di famiglia ha cominciato a farsi sentire per cui inviò la sua richiesta di trasferimento. Questo periodo coincise con la Guerra del Golfo. In Ambasciata ci allarmarono rispetto alla criticità della situazione e raccomandarono agli stranieri occidentali con mogli e figli di lasciare il paese. Così, mentre mia moglie rimase in Ambasciata io riuscii a fuggire in Italia con mio figlio, prenotando l’ultimo posto disponibile in un aereo della Philippine Airlines.

 

Una vita avventurosa, la sua. Quasi da romanzo…

Proprio così. Ho vissuto dodici anni molto intensi che hanno avuto un profondo impatto sul modo di vivere la mia vita. Una vita al limite, ma piena di senso e vissuta ogni giorno. Così, qualche anno fa, ho iniziato a raccogliere le mie memorie, aiutato da mia moglie, confluite in una pubblicazione per testimoniare la mia esperienza a mio figlio, i nipoti, amici e parenti.

 

LA MIA SFIDA PER L’INCLUSIONE DIGITALE

Intervista a Marta Luesma, cittadina spagnola che da sedici anni vive a Modena. E’ fondatrice di Includia, un’azienda specializzata in tecnologie immersive per favorire l’inclusione di persone con disabilità

Dove hai vissuto in Spagna? Quali sono state le tue esperienze formative e lavorative?
Sono nata a Saragozza, capoluogo della Regione spagnola dell’Aragona, al Nord della Spagna. Saragozza è una grande città ma che è riuscita a mantenersi a misura d’uomo. È facilmente vivibile, molto attiva sia a livello economico che sociale. A Saragozza ho studiato Giurisprudenza,
specializzandomi in Diritto dell’UE e ho iniziato il mio percorso lavorativo in ambito accademico, sia all’Università che in altri Enti formativi. Saragozza è considerata una città Smart dove trovano posto ecologia, innovazione, creatività, energia verde ed anche un eco-quartiere simbolo della rinascita della città.

Hai lavorato 20 anni in aziende, sia in Spagna che in Italia. Di cosa ti occupavi precisamente?
In Spagna avevo iniziato a lavorare sia all’Università che in altri Enti di Alta Formazione, e facevo delle consulenze sia alle aziende che all’Amministrazione Pubblica, sempre in materia di Diritto e Fondi Europei.

Quando e perché è arrivata la voglia o la necessità di lasciare l’Italia?
Per la migliore delle ragioni…mi sono innamorata da un ragazzo italiano! Correva l’anno 2006 quando, tramite un’amica italiana, ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito. È stato un colpo di fulmine e 6 mesi dopo esserci conosciuti mi sono trasferita a Modena. Anche se ero venuta diverse volte con i miei genitori in visita in Italia, non ero mai stata a Modena, Ovviamente conoscevo la città per la Ferrari, l’aceto balsamico e il lambrusco però non l’avevo mai visitata.

Come è nata l’idea di aprire la tua startup Includia? Perché il focus sul tema dell’inclusione?
Dopo diverse esperienze lavorative, sono approdata in un’azienda elettronica impegnata in collaborazioni con diverse realtà innovative. Una di queste mi ha introdotto nel mondo delle tecnologie immersive e delle loro infinite potenzialità, in particolare nel mondo della disabilità. L’idea di utilizzare queste tecnologie per aiutare gli altri in un’ottica di inclusione ha origine dall’analisi di dati molto precisi: nell’Unione Europea vivono 87 milioni di persone con qualche forma di disabilità, persone che non hanno le stesse opportunità nella vita delle altre persone. Spesso le scuole o i luoghi di lavoro, le infrastrutture, i prodotti, i servizi e le informazioni non sono tutti accessibili a loro. Da anni il tema dell’inclusione è diventato il focus di tante politiche sia nazionali che europee. Perché una società che abbraccia l’inclusione ne trae numerosi vantaggi, tra cui una forza lavoro più diversificata, una maggiore innovazione, una base di consumatori più ampia e una maggiore stabilità sociale.

Cos’è la tecnologia immersiva?
Si tratta di una tecnologia all’avanguardia e rivoluzionaria che si sta espandendo in vari settori professionali e aziendali che cercando di incorporare la tecnologia immersiva per le loro esigenze aziendali. La tecnologia immersiva livella la realtà della persona portando la tecnologia digitale,
sia sotto forma di mondo digitale o simulato, in un ambiente reale. E’ una esperienza capace di risvegliare i sensi. Il mondo digitale può essere vissuto in tanti modi: da una parte porta il contenuto virtuale nell’ambiente circostante, oppure trasforma il mondo fisico della persona in un ambiente virtuale grazie ad una grafica super interattiva e sorprendente. Le esperienze immersive creano divertimento, come se gli oggetti fossero intorno a te o tu fossi lì intorno. Questo creerà un’illusione che rende senza confini distinguere il mondo reale da quello virtuale

Tecnologie innovative come la Realtà Virtuale e la Realtà Aumentata o la tecnologia domotica possono aiutare a migliorare l’autonomia e l’indipendenza delle persone con disabilità. Qualche esempio?
Questa tecnologia, che può sembrare anche un po’ fantascienza, è completamente diffusa e accessibile. Mi spiego con un esempio: le tecnologie della realtà virtuale consentono di creare tour ed escursioni virtuali, immergere la persona nell’emozionante mondo dei musei, delle installazioni artistiche e delle ricostruzioni di valori culturali così come nuovi concetti di show musicali in realtà virtuale o esperienze sportive eliminando possibili limiti e barriere e creando delle esperienze specifiche per le persone con disabilità. Utilizzando, invece, la realtà aumentata. si può adattare il materiale didattico per le esigenze di
ogni bambino con bisogni educativi speciali in modo da personalizzare il suo apprendimento, partecipando alla vita di classe e all’insegnamento in un modo più inclusivo e autonomo. esplorare le implicazioni per l’apprendimento che hanno luogo alle frontiere della realtà in cui il virtuale e il reale si integrano per creare nuovi scenari di apprendimento

Puoi raccontarci, in breve, la storia di una persona che, grazie a questi strumenti, ha cambiato la sua vita?
Giorgio M., un ragazzo tetraplegico, che grazie al nostro metaverso accessibile riesce a navigare con i movimenti del suo volto in un ambiente virtuale dove può incontrare persone nella stessa situazione socializzando con loro, scambiando esperienza, informazioni, ecc.

Il concetto di inclusione in Spagna rispetto all’Italia?
In Spagna le politiche per favorire l’inclusione sono partite in ritardo rispetto all’Italia. Tuttavia, negli ultimi decenni si siano fatti grandi passi in avanti grazie ad un profondo cambiamento culturale sia nella terminologia, fondamentale per creare consapevolezza, sia nelle politiche attive in materia di
inclusione, non solo in ambito dell’inclusione scolastica ma anche di acquisizione di diritti a livello sociale.

Quali differenze sostanziali riscontri a livello lavorativo e sociale rispetto all’Italia? 

Italia e Spagna condividono modelli delle politiche attive molto simili, sia in ambito lavorativo che sociale. In Spagna c’è stato un grande avanzamento in entrambe le politiche che hanno portato ad un consolidamento di numerosi diritti sociali. Altro elemento chiave dello sviluppo economico di
Saragozza è lo sviluppo delle industrie digitali, attraverso la tecnologia e l’innovazione, potenziando la formazione delle nuove professionalità anche nell’ambito della disabilità.

Progetti per il futuro?
Attraverso Includia continueremo a dare il nostro contributo per costruire un mondo più inclusivo e accessibile, con progetti dove la tecnologia diventa un potente strumento per raggiungere quest’obiettivo. Continueremo a collaborare in modo sempre più intenso con enti, aziende ed istituzioni per creare una rete di soggetti attivi che possano cambiare la percezione della disabilità dalla base.

 

Intervista di Laura Corallo pubblicata sul magazine ‘Arte di Vivere a Modena’