Francesca Frau: l’arte di arredare con il ferro battuto

Giovane artigiana sarda, Francesca Frau ha scelto per passione di mantenere viva la tradizione familiare della lavorazione del ferro battuto, rilevando l’attività di famiglia nei primi anni Duemila. I suoi lavori, che consistono per la maggior parte in complementi d’arredo d’interni ed esterni e sculture in ferro, sono disegnati per poter valorizzare gli ambienti di case, alberghi, negozi e b&b, e realizzati attraverso l’utilizzo di tecniche antiche come la forgiatura, la fiammatura e la cesellatura del metallo. L’alta qualità delle creazioni deriva dalla costante partecipazione alle più importanti manifestazioni di Artigianato Artistico della Sardegna, che nel tempo hanno portato Francesca a collaborare con diversi maestri artigiani di tutta l’isola. “Quella della lavorazione del ferro battuto è sempre stata vista come una professione prettamente maschile. Vent’anni fa risultava molto difficile pensare che una ragazza potesse svolgere questo lavoro, riuscivo a far cambiare opinione solo invitando fisicamente il pubblico a visitare il laboratorio e ad osservarmi mentre ero al lavoro. Oggi, con il web, tutto cambia: gli scetticismi vengono smontati sul nascere perché le immagini fanno il giro del mondo in tempo reale e questo abbatte ogni stereotipo”, racconta Francesca. “Credo che il tocco e il gusto femminile possano dare un valore aggiunto a quest’arte, come a tante altre, e cerco di diffondere questo messaggio attraverso la comunicazione sui miei canali social, dove ricevo molti incoraggiamenti sia da donne, che da uomini”.

Daniela Diletti: innovazione e artigianalità oltre gli stereotipi

Rinnovare il settore delle calzature e allontanarlo dai luoghi comuni: è questa la mission di Daniela Dilettiimprenditrice marchigiana che, nel 2012, ha fondato un’azienda nel ramo calzaturiero, dando nuova vita alla tradizione familiare.

Dal primo negozio a Torino ai temporary store in Italia e all’estero, fino all’e-commercequella che porta avanti Daniela è una rivoluzione sia digitale che culturale, mirata ad abbattere la distanza tra produttori e cliente finale e a superare gli stereotipi legati alla figura femminile. “Quello del design e della produzione di scarpe è un ambiente prettamente maschile. Le scarpe vengono realizzate soprattutto secondo parametri estetici maschili che vedono i piedi delle donne idealizzati e conformistici: da sempre si immagina la figura femminile con piedi minuti e scarpe piccole. Viene, dunque, considerato normale che l’indossare delle calzature, soprattutto per una donna, debba rivelarsi un po’ doloroso, non dando ascolto alle esigenze personali: da cui deriva che i problemi di deformazione del piede nutrono anche una forte derivazione culturale”.

Per portare avanti questa battaglia, Daniela ha da subito posto al centro del suo business il dialogo con le donne e l’attenzione alle loro necessità. “Ho sempre cercato di comprendere da vicino le problematiche femminili e di comunicare attivamente per risolverle. Ecco perché, prima di vendere un paio di scarpe ad una cliente, non domando mai la taglia che indossa, ma la misura del suo piede, oltre ad eventuali problemi o patologie. Utilizzo strumenti digitali e di messaggistica per coinvolgere le mie clienti all’interno del processo produttivo e per fornire un’assistenza dettagliata durante tutte le fasi dell’acquisto, arrivando a conoscere attentamente chi c’è dall’altra parte della chat”.

Una sfida, quella di Daniela, che unisce il desiderio di riportare in auge a livello nazionale l’interesse per i mestieri antichirendendoli attuali attraverso il digitale, e di superare gli stereotipi di genere. “Il business è da sempre considerato materia maschile e credo che i pregiudizi nei confronti delle donne che si occupano o fanno impresa esistano ancora: tuttavia, non li ritengo ostacolanti”, continua. “È fondamentale per una donna riuscire a superare questa prima barriera di diffidenza e non smettere di credere nel proprio progetto”. Un consiglio per iniziare? Sfruttare gli strumenti digitali attuali – dai social al POS mobile come quello di SumUp – per avviare il proprio business ed accettare ogni forma di pagamento in modo semplice e veloce.

Le donne del Teatro Comunale di Modena

“Il teatro non è cosa per donne” è una frase celebre dell’attore e regista Carmelo Bene. Forse si riferiva alla fatica, alla durezza, del lavoro teatrale e dunque alludeva che le donne erano troppo deboli per affrontarlo.  Eppure le professioniste che lavorano a teatro, in particolare dietro le quinte, sono tante. Fanno parte di un mondo nascosto al pubblico eppure pulsante di abilità, esperienza e capacità: un mondo nel quale la tecnica si unisce a gesti che affondano la loro origine in tempi lontani. È il mondo dei macchinisti, degli attrezzisti, degli scenografi, dei sarti. Nulla senza di loro potrebbe esistere di quella “materia dei sogni” di cui il teatro è fatto. È artigianato in senso stretto, un’attività nella quale ogni prodotto è diverso dall’altro, e in ognuno c’è l’impronta della mano di chi lo ha fabbricato così come i pochi strumenti, spesso realizzati in proprio. Al Teatro Comunale Pavarotti, principale teatro lirico di Modena, due figure chiave nella messa in scena degli spettacoli sono donne: Keiko Shiraishi, una delle poche scenografe sulla scena teatrale nazionale odierna e Catia Barbaresi capo macchinista teatrale, unica donna in Italia a ricoprire questo ruolo in un ente teatrale stabile e una delle pochissime macchiniste in Italia.

KEIKO SHIRAISHI

E’ giapponese l’erede di cinque secoli di tradizione pittorica teatrale emiliana che arriva ai nostri giorni con i pittori modenesi Koki Fregni, Maria Grazia Cervetti e Rinaldo Rinaldi. Keiko Shiraishi è capo scenografa del Teatro Comunale, uno dei pochi teatri rimasti in Italia nella costruzione di allestimenti scenici. Significa che la maggior parte delle opere sono affidate ad artigiani con l’allestimento all’italiana di fondali e quinte dipinte a mano. Una tradizione che viene esportata in tutto il mondo, soprattutto nel caso degli scenografi esecutori. Gli italiani sono gli unici che ancora dipingono a mano, e a livello di eccellenza.

Keiko, parlaci dei tuoi inizi

Sono nata nel 1970 a Shizuoka, in Giappone.  Risale agli anni ’80 la mia prima esperienza come illuminotecnico e scenografa per la compagnia teatrale del Liceo regionale Kariyakita. All’età di 18 anni ho lasciato gli studi superiori per seguire mio padre in India, ingegnere della Toyota e responsabile dello stabilimento di Nuova Delhi. Lì mi sono dedicata agli studi universitari, ho studiato Musica Classica Indiana al Conservatorio e lingua italiana presso l’Ambasciata Italiana di Nuova Dehli. Nel 1993 sono arrivata a Roma per studiare all’Accademia di Belle Arti. Ho collaborato come apprendista al Teatro dell’Opera di Roma e come scenografa realizzatrice al Teatro di Roma. Ricordo di essermi presentata tutti i giorni per sei mesi per convincere il direttore del Teatro dell’Opera a farmi fare lo stage.  Grazie a Edoardo Sanchi sono diventata assistente di Rinaldo Rinaldi, tra i più importanti scenografi al mondo.

Come sei arrivata a Modena?    

Nel 1997 ho seguito Rinaldi a Modena e insieme abbiamo collaborato alla realizzazione pittorica di importanti opere commissionate dai più prestigiosi teatri lirici nel mondo. L’anno dopo sono entrata al Comunale prima come stagista e poi da scenografa. Non potendo essere assunta, in quanto straniera ed extracomunitaria, ho aperto la partita Iva e dal 2011 ho lavorato come scenografa libero professionista per diversi teatri e in modo continuativo, dal 2017, con il Teatro Comunale. Come libera professionista, ho firmato e realizzato scene di spettacoli teatrali per la Compagnia del Serraglio, Giardini Pensili, Teatro dei Cinquequattrini.

Come si costruisce una scenografia e quante ne hai realizzate?  

Sono scenografa specializzata nella costruzione di fondali dipinti a mano. E’ un mestiere puramente artigianale che sta ormai scomparendo. Il fondale è l’elemento scenografico più importante e si trova nello sfondo del palcoscenico. Nella mia carriera ho realizzato quaranta, tra scenografie e fondali dipinti a mano. Usiamo pennelli, tavolozze e colori, si lavora in piedi con le tele a terra. Occorrono tre mesi per realizzare una scenografia di ampie dimensioni mentre se la scena è piccola lo realizzo da sola e in un mese. E’ un’arte antica e difficile perché come realizzatore devo interpretare le intenzioni del bozzettista e prevedere l’effetto finale. Il lavoro finito è tutto finto, una illusione per il pubblico ma la tecnica per realizzare questi scenari è in realtà un’arte meravigliosa, quella praticata dai pittori di fondali che, appunto, dipingevano le ambientazioni che avrebbero fatto da sfondo alle storie.  

Progetti per il futuro?

Mi piacerebbe portare avanti la tradizione di questo antico mestiere, ormai in estinzione, proprio qui a Modena.  Oggi solo quattro pittori, in tutta Italia, dipingono i fondali, due lavorano sotto la Ghirlandina. Pochi sono i laboratori di scenografia mentre i fornitori sono quasi scomparsi. Gran parte del materiale viene autoprodotto: dai carboncini ai pennelli fino ai colori di scenografia. La città di Modena, essendo patria di artigiani importanti  nel mondo del teatro, come Rinaldo Rinaldi, uno degli ultimi pittori rimasti a dipingere fondali nella sala di scenografia di un teatro d’opera italiano, potrebbe pensare di investire in una scuola di scenografia rivolta alle nuove generazioni perché questo lavoro si impara solo facendolo.   

CATIA BARBARESI

E’ diplomata all’istituto d’Arte e specializzata in Architettura e Arredamento. Ma quando, nel 1997, Catia Barbaresi, originaria di Fano, ha messo piede per la prima volta nel Teatro di Fano, ha capito che il palcoscenico sarebbe stato il suo “luogo di lavoro”. Da più di vent’anni lavora come capo macchinista per il Teatro Comunale di Modena. Il suo compito è quello di montare le scenografie e farle muovere sulla scena durante lo spettacolo. Una magia, appunto, che si nutre di tecnica e sapienza del mestiere.

Qual è stato il tuo approccio al teatro?

Nel 1997, all’età di 20 anni, ho vinto un concorso al Teatro di Fano, la mia città di origine, ed ho iniziato subito a lavorare come macchinista. Sono entrata in questo mondo fantastico e per me è stato amore profondo grazie anche ad una sensibilità musicale trasmessa da mia nonna. Quello del macchinista è un lavoro complesso: bisogna mostrarsi determinati, soprattutto in un contesto lavorativo prevalentemente maschile. Io stessa sono stata formata da un uomo, il grande Maestro Angelo Lontani di Piacenza che ha contribuito a farmi amare questo mestiere. Probabilmente, poi, c’è una predisposizione familiare a fare lavori maschili. Mia mamma aveva un lavaggio d’auto e mia zia era un capo operaio in un cantiere navale. Lavoro stabilmente, dal 1998, al Teatro Comunale di Modena ma mantengo ancora collaborazioni esterne, tra queste quella importante con il Festival dei Due Mondi a Spoleto.

Cosa ti appassiona del teatro?

Il mondo del teatro è molto bello perché solo quando sei dentro capisci cos’è: è come aprire una porta spazio tempo dove le opere teatrali hanno il dono dell’immortalità.  E poi, il lavoro dei tecnici dietro le quinte: abili artigiani, pronti a trasformare in realtà le fantasie geniali dei registi. Vedere la mano che realizza è il momento più affascinante. Mi muovo nel ventre del teatro, in un mondo che gli spettatori non vedono. Ma grazie al lavoro dei tecnici, di chi sta dietro le quinte, lo spettacolo esiste. 

In cosa consiste il lavoro del macchinista?

I macchinisti si occupano della costruzione, montaggio e movimentazione delle scene, prima e dopo lo spettacolo e del loro funzionamento durante la rappresentazione. Quella del macchinista è un’arte molto antica e non è cambiata nel tempo: il mio lavoro consiste nella gestione della parte tecnica: legare corde, realizzare contrappesi per sollevare oggetti pesanti, costruire e manovrare i marchingegni del palcoscenico. A Modena lavoriamo in un team affiatato dove è importante trovare una sintesi tra le diverse esigenze, dal regista, allo scenografo al tecnico della luce. La mia figura fa da raccordo tra il lavoro tecnico e quello artistico. Come capo macchinista ho l’ultima parola sulle decisioni da prendere nella preparazione delle strutture portanti alle quali sono in seguito appese le luci e le scene, preparando e movimentando i tiri. E’ un lavoro molto affascinante ma di grandi responsabilità dove il lavoro di uno dipende il lavoro degli altri e dunque, ogni ingranaggio è ugualmente importante e deve funzionare con precisione, affinché il risultato finale sia un successo.  

Cosa consigli ad un giovane che vuole seguire le tue orme?

Avvicinarsi ai teatri non è difficile ma non è neanche così immediato. Il lavoro del teatro è molto duro, e la memoria dell’esperienza difficile da trasmettere. Per questo occorre salvaguardare il lavoro del teatro come mestiere d’arte, perché altri possano apprendere e tramandare alle generazioni successive. Il percorso che avvicina di più al mestiere è l’Accademia di Belle Arti cui deve seguire la crescita professionale mediante l’esperienza sul campo affiancando i maestri nell’apprendimento dei segreti e trucchi del mestiere.

Lungo il filo della storia. Da otto generazioni, l’arte della tessitura in chiave contemporanea

L’arte del tessere è antica quasi quanto l’uomo. Tutte le civiltà, nei periodi storici, hanno lasciato testimonianza delle proprie conoscenze nel campo della produzione di manufatti tessili, in gran parte tramandate per via orale e, prima dell’avvento della produzione su scala industriale, mantenute e custodite nell’ambito delle famiglie di artigiani tessitori, riuniti eventualmente in corporazioni.
La ditta Artelèr è nata negli anni ’80 proprio dalla volontà di Lucia Trotter e della madre Lina Zanon di recuperare e ripristinare il mestiere della tessitura manuale, principale attività lavorativa della famiglia materna fino ai primi decenni del ‘900. Ricostruendo ed utilizzando i telai secondo tecniche secolari, la ditta Artelèr produce tessuti originali per disegno e caratteristiche tecniche di fabbricazione, discendenti da una antica tradizione di area europea. Il laboratorio artigiano si trova a Mezzano, un borgo gioiello nella Valle di Cismòn, dove, attorno ad antiche stradine e case sapientemente restaurate, si tramandano i mestieri di un tempo dimostrando come sia possibile coniugare la tradizione con il futuro e l’innovazione. Lucia Trotter porta avanti la tradizione tessile di ben otto generazioni assieme alla figlia stilista Carmen ed alla cognata Teresita (detta Zita).

Come nasce questa tradizione? Come tante altre storie di migrazione, comincia con una storia di riscatto, di speranza e di sogni alla ricerca di un futuro migliore. Tutto parte dalla vicenda di Primiazzo Zanon, tessèr della Val di Fiemme. Smonta il suo telaio, lo carica su un carretto, e s’incammina tra fitti boschi per valicare il versante dei monti diretto verso la Valle di Cismòn, terra non troppo lontana. Qui, precisamente a Mezzano, pittoresco borgo a 90 chilometri da Trento con poco più di 1600 abitanti, mette su casa, bottega e famiglia e dà avvio a una stirpe di tessitori che, ancora oggi, è identificata dal suo nome troncato “Miazzo”. Di generazione in generazione, i Zanon continuano esclusivamente a tessere e si tramandano il mestiere fino a metà Ottocento diventando artigiani e imprenditori e incentivando l’economia del proprio paese e trasmettendo i primi rudimenti dell’arte a qualche giovane richiamato da un proclama che invita possibili garzoni. 

Lucia, fin da quando ha ricevuto il “testimone” dalla mamma Lina, ha continuato ad unire la curiosità della sperimentatrice con la sicura competenza che le viene dalla tradizione.
Nel laboratorio sono ancora in uso gli antichi telai di famiglia con cui vengono tra l’altro realizzati i pregiati damaschi double-face con disegni che risalgono all’impero austroungarico. Accanto a copriletto, coperte, tovaglie, tappeti e tendaggi,  adagiati sul tipico secchiaio di marmo di quella che un tempo era la cucina – sono in bella mostra anche i vestiti ideati dalla figlia stilista Carmen capi unici, moderni, scanzonati e vagamente etnici. Qui si lavora su ordinazione perché ogni pezzo è tipico, unico e di grandissima qualità.

“Ferrari” per i piedi, le opere dell’artigiana veneziana Gabriele Gmeiner

“Qualità significa fare le cose bene quando nessuno ti sta guardando.” Henry Ford

C’è ancora spazio per l’artigianato “old style”, dove la qualità si coltiva con la sola sapienza delle mani, oppure è una specie in via di estinzione?
A Venezia troviamo una delle esperienze migliori di prodotti artigianali di lusso esposti dietro le sue vetrine d’altri tempi, in Campiello del Sol, dietro la Stazione Centrale di Venezia, nell’intrico di calli e campielli. La bottega artigiana di Gabriele Gmeiner è una piccola impresa al femminile, realizza scarpe su misura destinate a un pubblico facoltoso e di nicchia, che chiede calzature rigorosamente fatte a mano. Di origini austriache, Gabriele Gmeiner, ha aperto la bottega nel 2002, grazie ad un finanziamento a fondo perduto previsto dalla legge Bersani per i giovani imprenditori. Oggi produce dalle 35 alle 40 paia di scarpe all’anno, su commissione di clienti in prevalenza stranieri. I suo prodotti sono Ferrari in versione calzatura: il prezzo di un paio di scarpe finito, compresa la forma in legno e la scarpa di prova, va dai 2.700 euro più iva agli oltre 5 mila euro e per realizzalo ci vogliono 80 ore di lavoro. Nel laboratorio di Gabriele Gmeiner, che ha lavorato con John Lobb e Hermès, non c’è nulla di tecnologico. Ogni fase – dalla scelta delle pelli, alla realizzazione della tomaia, della suola e alle rifiniture – conta sul “fare a mano” e sull’aiuto di quei (pochi) apprendisti che desiderano investire in questo mestiere. La meta produttiva mensile di Gabriele Gmeiner è di 3/5 paia di calzature al mese.

Il lavoro non manca, nonostante la crisi, ma per resistere bisogna consegnare entro i tempi e il lavoro di due sole mani non basta – spiega Gabriele Gmeiner in una intervista pubblicata su Il Sole 24 Ore – Il mio capitale è la manodopera e i miei investimenti si concentrano solo sull’abilità di collaboratori formati, ma non posso usufruire delle stesse agevolazioni previste per chi acquista nuovi macchinari”. “Nei prossimi mesi conto sulla collaborazione di due artigiane, due donne che, mi auguro, lavoreranno con me a lungo.L’unico modo per far crescere questa attività è aumentare la produzione, e quindi il fatturato, garantendo una manifattura al cento per cento artigianale”.

A Venezia, città di grandi camminatori, l’artigianato della calzatura sembra essere una prerogativa femminile: Gabriele Gmeiner, con Daniela Ghezzo e Giovanna Zanella, è infatti una delle tre donne a realizzare scarpe su misura. Nonostante la crisi il prodotto di nicchia e personalizzato vive un momento fiorente. La cultura della qualità e l’interesse per il prodotto al dettaglio si stanno diffondendo anche grazie ai social media e a una comunicazione fotografica che, dal cibo all’abbigliamento, esalta la bellezza. “È il momento giusto per investire nell’artigianato – chiude Gmeiner – confidando nella riscossa del Made in Italy che, seppur in sofferenza, ha ancora tutti i mezzi per imporsi nel mondo”.