Giorgio Zini, ci racconti la sua esperienza
Sono nato a Corlo nel 1953 da una famiglia umile e di origine contadina. La scuola non era una priorità, a casa occorrevano braccia per lavorare in campagna. Sono riuscito tuttavia a prendere il diploma di Terza Media dopo il Servizio Militare. Il miglior maestro, per me, oltre alla famiglia, è stato il viaggio: per dodici anni, dal 28 dicembre 1981 al giugno 1993, ho vissuto per lavoro in Medio Oriente, tra Iraq e Pakistan. Una esperienza intensa, difficile e, a tratti, pericolosa, ma che mi ha aiutato ad aprire la mente, comprendere il mondo e a sviluppare empatia verso persone e culture diverse.
Quando ha deciso di partire?
Nel 1974 sono stato coinvolto in un incidente d’auto avvenuto nei pressi di Formigine, dove ha perso la vita l’amico che mi accompagnava. Io sono stato ritenuto responsabile dell’incidente con l’obbligo di risarcire il danno nei confronti della famiglia della vittima. Così, l’unico modo per ripagare l’ingente debito era guadagnare di più lavorando all’estero.
Come ci è riuscito?
Fui assunto alla Fiat Trattori, con sede a San Matteo a Modena, un produttore di macchine agricole tra i più grandi nel mondo, nel centro di assistenza dei trattori nuovi. L’azienda, diventata in seguito Fiat Agri, fu trasferita nel 1928 da Torino a Modena, dove è stata fondata l’OCI (Officine Costruzioni industriali) con un accordo tra la Fiat Torino e le Officine meccaniche reggiane, che misero a disposizione lo stabilimento di loro proprietà di Modena. In questa fabbrica mi occupavo della manutenzione dei trattori che avevano un anno di garanzia. In seguito, ho conosciuto la squadra esteri impegnata nei rapporti commerciali con l’estero, in particolare con il Medio Oriente. Quando venni a sapere che l’azienda stava cercando personale da inviare nelle sedi locali in Iraq, mandai la mia candidatura.
La situazione in Iraq, all’epoca, era piuttosto turbolenta…
Erano gli anni ’80, Saddam Hussein, Presidente dell’Iraq fino al 2003, aveva acquistato migliaia di trattori dalla Fiat di Modena. L’obiettivo era di incoraggiare lo sviluppo dell’agricoltura e la coltivazione della terra rendendo fertile quella che un tempo era conosciuta come Mesopotamia o Mezzaluna fertile, terra bagnata dal Tigri e dall’Eufrate e ricca di risorse. Il fellah (contadino arabo) era la figura centrale in questa politica rurale, simbolo del radicamento alla terra e delle tradizioni locali. Qualche anno dopo, lo scoppio della guerra tra Iraq e Iran cambiò drammaticamente la situazione. I dipendenti di Fiat Trattori Modena che prestavano servizio nelle sedi irachene, furono richiamati immediatamente a casa, soprattutto quelli con famiglia a carico, perché la situazione stava diventando molto pericolosa.
A quel punto furono necessari altri lavoratori da inviare nel territorio iracheno?
Certamente. Il contratto tra Fiat Trattori e il Governo iracheno era ancora in essere e doveva essere rispettato, nonostante la guerra. Così la ditta si mise alla ricerca di lavoratori disponibili a trasferirsi, preferibilmente scapoli oppure sposati ma senza figli. Io ero scapolo e mi candidai. Era il 28 dicembre del 1981, avevo 28 anni. I lavoratori che partirono da Modena furono soprannominati ‘votati alla morte’ proprio perché non esisteva garanzia di ritorno a casa. Firmai comunque un contratto di due anni e partii.
Come ha vissuto in quei luoghi?
Vivevo nei villaggi con i contadini. Ho vissuto una vita rozza e grezza. I fellah, radicati alla terra, coltivavano i campi in autonomia con i loro mezzi di produzione. In quei contesti si dava valore alla relazione, condivisione e rispetto delle tradizioni. Queste ultime in maniera più forte rispetto alla città. I miei colleghi hanno sofferto questa condizione di vita in assenza di comodità, alcuni hanno sfiorato la depressione. Invece le mie origini contadine mi hanno aiutato: ricordo che da piccolo aiutavo mio padre a trebbiare il grano nei terreni di famiglia intorno a Formigine fino a Serramazzoni e Faeto. La notte dormivamo su pagliai di fortuna, non era raro prendere i pidocchi. Quella vita la conoscevo perciò mi sono adattato bene in mezzo a loro.
Le sue giornate tipo?
Non esisteva un giorno uguale all’altro. Gestivo in autonomia il mio lavoro, non avevo l’obbligo di timbrare il cartellino. Il mio lavoro mi portava in giro in lungo e in largo per l’Iraq, nei vari distaccamenti Fiat, per scaricare e fare assistenza ai trattori. Mi muovevo tra Bagdad, Sinjar, Mosul fino ad Abou Ghraib, nel cui carcere scoppiò lo scandalo delle torture da parte degli americani. Arrivati sul posto scaricavamo i trattori, cercando di fare più in fretta possibile, e andarcene. Dopo il lavoro tornavo a casa e passavo il tempo con gli amici. Ricordo i giri in campagnola e in jeep ma anche le calde e secche serate d’estate. Le condizioni di vita erano disagiate ma sono riuscito ad adattarmi. Essendo in campagna l’acqua non era potabile. Quella da bere si bolliva. In alternativa bevevo l’acqua direttamente dai ruscelli e dagli stagni con i pesci, non sempre, però, pulita e trasparente.
Tra i tanti luoghi visitati quale le è rimasto nel cuore?
Senz’altro la città di Ninive, uno dei più importanti siti archeologici al mondo. Ho vissuto due anni a Mosul, a poca distanza da Ninive, capitale del regno assiro. E’ stato un grande dolore sapere che le truppe dell’Isis, nel 2015, hanno distrutto i resti di questa antica città, oltre a molti significativi monumenti archeologici.
In Pakistan ha incontrato sua moglie. Come vi siete incontrati?
Ho conosciuto mia moglie ad un party. Nata a Roma, occupava all’epoca il ruolo di segretaria dell’Ambasciatore italiano in Pakistan, Arduino Fornara. Avevamo molte affinità ed entrambi avevamo girato il mondo. Poco dopo ci siamo sposati in ambasciata con una cerimonia officiata dallo stesso Fornara. Per trasferirmi a Islamabad, mi sono dimesso dalla Fiat per firmare un contratto di due anni con la ditta Iori di Reggio Emilia. Qui mi occupavo dell’assistenza per i macchinari agricoli distribuiti in tutto il paese, mungitrici, falciatrici, girando il Pakistan da nord al sud, fino ai confini con l’India e la Cina e sfiorando la catena dell’Himalaya.
Lei ha vissuto anche il periodo della guerra in Afghanistan
Ricordo anni di alta tensione perché l’Afghanistan era martoriata dalla guerra civile, con milioni di profughi che dipendevano dagli aiuti umanitari per fornire i servizi essenziali, anche sanitari. I mujaheddin formarono l’Alleanza del Nord e si scontrarono contro i Talebani per il controllo del paese afghano. La guerra civile sfociò, nel 1979, con l’assassinio del presidente dell’Afghanistan, Hafizullah Amin e il colpo di stato con cui l’esercito sovietico occupò Kabul e segnò l’inizio dell’invasione sovietica dall’Afghanistan. In quel periodo tutto il paese era punteggiato da migliaia di campi profughi e sfollati, mentre i feriti venivano accolti nelle tende adibite ad ospedale. Io stesso, su esplicita richiesta dei medici, ho donato il mio sangue ai mujaheddin combattenti che dovevano essere sottoposti ad operazione chirurgica.
A sua moglie piaceva questa vita?
Per quasi tutto il periodo, e specialmente i primissimi anni, un’esperienza entusiasmante perché le condizioni di vita per noi erano estremamente favorevoli. Essere stranieri in Pakistan dava adito a tanti privilegi perché eravamo in una condizione economica nettamente superiore ai locali. Lei ha potuto concretizzare il suo desiderio di vivere per conto suo con tutti i vantaggi di una grande casa ma senza gli svantaggi di doverla pulire, perché tutti gli stranieri avevano almeno 2 domestici. Poteva quindi permettersi il lusso di fare inviti frequenti e godersi momenti di relax in giardino, dedicarsi alla lettura, o alle visite a colleghi della sua Ambasciata o di altre. Le Ambasciate si occupavano, in alcuni periodi dell’anno, di manifestazione per la beneficenza nei confronti di ospedali poveri: si organizzavano a comprare prodotti tipici delle loro nazioni per poi rivenderle in un mercatino collocato nel cortile della Nunziatura Apostolica. Anche da un punto di vista professionale ha avuto modo di vedere da vicino avvenimenti e incontri a livello internazionale oltre, dopo aver conosciuto me, a venire a contatto con delle realtà locali che, in parte viveva già con i domestici e alcuni impiegati locali dell’Ambasciata.
Quando siete ritornati in Italia definitivamente?
Dopo alcuni anni, nonostante il folklore del posto, è cominciata a subentrare una certa routine e la mancanza di “cose” occidentali, di vecchi amici, di aria di famiglia ha cominciato a farsi sentire per cui inviò la sua richiesta di trasferimento. Questo periodo coincise con la Guerra del Golfo. In Ambasciata ci allarmarono rispetto alla criticità della situazione e raccomandarono agli stranieri occidentali con mogli e figli di lasciare il paese. Così, mentre mia moglie rimase in Ambasciata io riuscii a fuggire in Italia con mio figlio, prenotando l’ultimo posto disponibile in un aereo della Philippine Airlines.
Una vita avventurosa, la sua. Quasi da romanzo…
Proprio così. Ho vissuto dodici anni molto intensi che hanno avuto un profondo impatto sul modo di vivere la mia vita. Una vita al limite, ma piena di senso e vissuta ogni giorno. Così, qualche anno fa, ho iniziato a raccogliere le mie memorie, aiutato da mia moglie, confluite in una pubblicazione per testimoniare la mia esperienza a mio figlio, i nipoti, amici e parenti.